Conclusa la lettura de Lo Gnosticismo di Hans Jonas, mi sono chiesto il motivo dello strano interesse che a ogni pagina mi cresceva dentro. Non era perché eccitato da bizzarre e complicate teogonie di luoghi e tempi lontani, ma per l’onnipervadente e sempre attuale posizione esistenziale che quelle cosmogonie esprimevano e esprimono, che potremmo sintetizzare così:
“Il mio posto è altrove”.
Cifra psicologica che serpeggia da sempre un po' ovunque, forse generata da nostalgie oceaniche uterine, forse da reminiscenze di dimensioni ancestrali, quando prima del peccato originale del linguaggio che ha messo in scena il nostro mondo fluttuavamo altrove, ma altrove dove? Non certo in un altro mondo, come affermava lo gnosticismo tardo antico e come sostiene quello odierno nelle sue molteplici espressioni, ma fluttuavamo nell’immanenza intrafisica naturale, “altrove” rispetto, dunque, alla cultura non alla natura[1]. Un altrove sistematicamente frainteso che tuttavia ha prodotto cattedrali.
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1 “Il massimo della trascendenza coincide con il massimo dell'immanenza” (Dio sono anche gli uomini", Mario Verri.)