Aldo Capitini osservava che fare reale esperienza di quelli che ci hanno preceduti in questa esistenza sentendoli qui presenti,
“fa sì che scompaia la pretesa di rivedere i morti tali e quali essi furono, con le loro abitudini, i loro modi, e quasi il loro linguaggio, la loro fisionomia se non le loro vesti. La compresenza [di vivi e morti] toglie via questa idolatria o chiusura della finitezza storica”[1].
Vale a dire il morto non è riducibile all’individuo e alla sua biografia; la foto della sua faccia col moccolo davanti è nient’altro che una parodia di quell’entità, che se realmente compresente è ben altro.
Si potrebbe integrare osservando che, pari, pari, vale anche per i vivi, perché siamo entità che tendono ad auto trascendersi, non riducibili ad un mero io biografico, con le sue abitudini e i suoi modi. Ma allora morti e vivi chi sono, cosa sono? Non lo sappiamo. Il problema è che pretendiamo di saperlo quando partendo dalla (giusta) osservazione che siamo entità costituite da un nucleo che ci porta ad auto trascenderci, tendiamo a equivocare - tradizione giudaico-cristiana in primis - questo auto trascendersi come espansione dell’io personale, una sorta di eterno, fisso, ringagliardire cosmico dell'individuo.
Forse meglio un trascendersi per sottrazione sbarazzandoci un po' di noi stessi. In effetti la natura funziona proprio così: “Se il chicco di grano non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.
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1 Aldo Capitini (1899 –1968), La compresenza dei morti e dei viventi, Libreria Editrice Fiorentina, ristampa 2023 pag. 139.