Lacerati fra il desiderio d’esserci e l’impermanenza data dal continuo divenire che muta tutte le cose, escogitiamo sistemi per non spaccarci in due. Sono tante le strategie per smorzare l’attrito fra essere e non essere, dalle più sfumate come la sottile soddisfazione di consegnare i personali cromosomi alla progenie, o il proprio sapere agli allievi, così da persistere un po’ di più, fino alle più chirurgiche ed estreme, dal credere ad un Creatore di un io personale stabile e imperituro, stile profeta Geremia con Dio che gli rivela: “Prima che ti formassi nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto”, o all’opposto puntare dritto all’annientamento dell’io, stile dottrina dell'anātman ossia del “non sé” propria del Buddhismo, che afferma la totale insussistenza dell'io.
Si potrebbe optare per una delle due soluzioni, un po’ come quando stacchiamo un polo dalla batteria dell’auto per evitare cortocircuiti, se non si rischiasse, qualsiasi dei due poli si escluda, una stasi mortale. In effetti il credente nel Creatore tutto convinto di sapere la verità definitiva, assoluta, rivelata, non avrà motivo di pensare ad altro, ancora meno di lui potrà fare e pensare chi nega se stesso; per fare e pensare bisogna perlomeno essere qualcuno. Concezioni opposte medesimo risultato.
Però potrebbe anche darsi che quella lacerazione primaria[1] non sia un problema da risolvere ma semplicemente da accettare perché motore di ogni agire[2].
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1 Più mi guardo dentro e intorno più constato che questo dualismo originario, questo barcamenarci fra Eros e Thanatos, è la cifra di Homo sapiens.
2 «Polemos [la guerra, nel caso di specie il conflitto interno] è padre di tutte le cose, di tutti i re». (Eraclito)