Avevo messo quattro pesci rossi nello stagno, quattro di numero, passati manco due anni erano più di duecento, si sa la natura è fissata con l’esserci, perpetuarsi e crescere, però dopo un tre anni i pesci erano diminuiti a un centinaio e passato qualche tempo erano solo cinquanta. Da tre anni permangono cinquanta, di tanto in tanto un paio di più o di meno per poi ritornare ancora cinquanta in equilibrio con le dimensioni dello stagno.
L’altro giorno nel rendermi conto del processo, ho percepito l’istantanea sensazione di appartenere a un funzionamento affidabile che “sa” bene quello che fa[1]. Per me quell’istante di consapevolezza è stato importante, come sono importanti tante altre esperienze personali che tutti noi facciamo, il problema che non appena le comunichiamo, anche solo a noi stessi[2], forniamo una immagine sbiadita, a volte distorta, di quanto avevamo provato. Alla fine l’evento della percezione individuale immediata è forse ciò che davvero conta, è quella esperienza che ci pervade testa e corpo ma che precede ogni pensiero e parola. Poi, va da sé, che quella esperienza si pensa e ricorda, va da sé che si dice a se stessi e agli altri, talvolta si scrive.
Può anche capitare che le esperienze si pensino e dicano così tanto, che alla fine si pensa e si dice la vita invece di viverla. Nel trasferire un evento dall’esperienza al pensiero e alla parola l’esperienza perde un po’ della sua potenza originaria, già solo il pensarla e ricordarla è rappresentarla, ossia un’altra cosa rispetto all’originale, sì somigliante ma un’altra cosa, dunque dire il ricordo dell’esperienza è una rappresentazione della rappresentazione, scriverlo è rappresentare la rappresentazione della rappresentazione, perché nello scrivere prima traduciamo l’esperienza dell’evento in pensiero, poi traduciamo quel pensiero in parole e per finire quelle parole in segni. Tutto sommato, alla fin fine, parlare e scrivere bene è l’abilità di comunicare, attraverso l’utilizzo-superamento dell’artefatto della parola pensata, detta o scritta che sia, una immagine il meno possibile sbiadita di una certa esperienza.
L’esperienza individuale diretta è come se appartenesse a un certo regno ontologico, il dire e lo scrivere a un altro. Il problema è che se non usciamo dall’ontologia privata della percezione personale siamo condannati a uno stato simile a quello di monadi autistiche, in un regno senza alcun contenimento dove follia e delirio sono leciti, ma se ne usciamo perdiamo la purezza e la potenza dell’esperienza diretta smarrendoci nella Babele del mondo degli uomini, perché l’altro esige comunicazione quindi trasposizione e traduzione. I due regni ontologici sono insieme distinti e interconnessi, come il Giano bifronte non ci resta che viverli entrambi facendoci in due rimanendo uno.
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1 Il funzionamento naturale fa anche metastasi, ma statisticamente produce più omeostasi che metastasi.
2 Ho almanaccato un ragioniere occulto lì a monitorare a tempo pieno il numero di pesci rossi aumentandoli o diminuendoli secondo necessità, demiurgo sì divertente ma che ha immediatamente depotenziato l’esperienza originaria. Forse meditare significa vivere il momento per quello che è evitando di inquinarlo mettendogli le mani (i pensieri) addosso.