“Ciò che potremmo chiamare il metodo delle scienze consiste dall’imparare dai propri errori in modo sistematico: in primo luogo, correndo dei rischi, osando commettere errori”[1].
Se la scienza si credesse infallibile non sarebbe più scienza; se la scienza pur riducendo per quanto possibile il rischio non osasse sbagliare imparando gradualmente dagli errori, non sarebbe più scienza. In effetti l’infallibilità attiene e appartiene a tutt’altri paradigmi, da quello dell’idiota patentato che non deve chiedere mai a quello dei dittatori che perseguono binari àut àut, al mago che pretende di assoggettare la natura in un sol colpo, fino a quello delle confessioni religiose ancora convinte dell’inerranza biblica o dell’infallibilità del Magistero, o di particolari oggetti con poteri miracolosi garantiti e cose del genere.
La storia dà prova che coloro che si sono mossi consapevoli della propria fallibilità e attingendo da questa -"Fallisci ancora, fallisci meglio" (S. Beckett)-, alla fine hanno errato di meno rispetto a quelli che si sono mossi all'interno di paradigmi di infallibilità (scienziati inclusi).
Verosimile che l’imperversante desiderio di traslocare la scienza dal fallibile all'infallibile, buttandola via per intero se il trasbordo non riesce, derivi dal fatto che non si è più abituati a pensare in scala di grigi, vale a dire di considerare l’effetto causale e le misure di efficacia, l’impatto nel contesto, la quantificazione dell’incertezza, il rapporto danno/beneficio e via dicendo. Complessità che non può essere o bianca o nera, come non lo è l'esistenza.
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1 Karl R. Popper, Il mito della cornice, difesa della razionalità e della scienza; il Mulino, Bologna 1995, pag. 128.