Le Chiese cristiane poggiano su una peculiare narrazione così riassumibile: la natura e gli uomini creati in principio da Dio permanevano, e in qualche modo continuavano a permanere anche nel cristianesimo, in una sorta d’insussistenza ontologica: «Io [Iddio] sono colui che è, e tu [creatura] sei colei che non è» (da santa Caterina da Siena). Il problema è che Dio era concepito, prima dell’avvento di Gesù Cristo, e in ragionevoli strascichi successivi ancora attuali, un Tutt’altro assolutamente trascendente la sua stessa creazione; entità incommensurabile, inesprimibile, inconcepibile, un Aldi là di tutto[1] assoluto.
Stando così le cose vediamo una terra abitata da creature, sì, reali nondimeno ontologicamente insussistenti e da un Dio creatore, sì, plausibile quanto albergante in così alti cieli, tanto altro e oltre, da risultare inconcepibile alle sue stesse creature, ma all’improvviso… Il colpo di scena: il sublime Tutt’altro si fa uomo. L’irrisolvibile è risolto e quell’universale limbo paralizzante di entità rarefatte, per illimitata piccolezza o per infinita grandezza, viene spazzato via per sempre grazie all’incarnazione di Dio in Gesù Cristo e alla Sua presenza sacramentale nella realtà umana della sua Chiesa nel mondo.
Colpo di scena forse grossolano, infantile e infantilizzante, rispetto a più dignitosi e realisti, quanto faticosi, percorsi di ricerca filosofica sulla problematica che Dio meriterebbe dalle sue creature, in ogni caso tanto caro a miliardi di cristiani. Come dargli torto? Tra tutte le storie che l’umanità ha mai concepito n’esiste qualcuna di più affascinante, semplificante e consolatoria?
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1 Formula patristica di stampo neoplatonico attribuita a Gregorio Nazianzeno.