Osservava l’impiegata che gli compilava l’ISEE, un pezzo di carta dove misurando proprietà e redditi sentenziano per iscritto se sei ricco o povero. Siccome era uno strano la immaginava, nel contempo, mandare il primo vagito e cadavere nella bara mentre, fra i due accadimenti, riportava gli estratti catastali e le giacenze medie di conti correnti altrui. Neonata grassottella, impiegata di mezz’età grassottella, vecchia cadavere grassottella. Nei tre momenti, oltre allo stazionario soprappeso, ravvisava il lei costante serenità. Da dove perveniva? D’improvviso una possibile spiegazione:
«C’è solo un errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici.» [1]
Forse la serenità dell’impiegata derivava da emancipazione dall’innato errore di credere d'esistere per essere felici, una sorta di rassegnazione, di distacco, di pacata accettazione della misera condizione umana, ma più la osservava e meno la vedeva rassegnata, distaccata e pacata: nel suo lavorare esprimeva piacere, coinvolgimento, precisione e azione in faccende in apparenza contingenti e strette, eppure segmenti di laboriosa attività che sommati elargivano soddisfazione a tutta la sua esistenza.
Probabilmente non esistiamo per essere costantemente felici ma, di azione in azione, di volta in volta, soddisfatti. Esistiamo, dunque, per lavorare.
1 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Supplementi al quarto libro, Bur, Milano, 2002, p. 890.