Nel salone del museo strisce sul pavimento delimitano, al centro, un vasto quadrato. Fuori dal perimetro il pubblico, dentro in tunica bianca l’artista seduta sopra a una sedia di due frontali. Sull’altra siedono, uno per volta, gli spettatori per un tempo circoscritto. Fermi e zitti artista e spettatore si guardano negli occhi. Questo è «The artist is present» di e con Marina Abramovic. Le conseguenze sono virulente e per l’artista e per il pubblico:
oltrepassato il recinto irrompe il sacro: il pensiero collassa, il mondo sparisce fagocitato da un amore così forte che procura sofferenza. Un mix di gaudio e sofferenza smisurate: la compassione di un dio. Sofferenza dell’umanità carburante che fa funzionare il dio, che così arde ed esiste.
Per tanti anni ero rimasto impaludato nel sacro stupore, a quel tempo anch’io mi sarei messo in coda per guardarla negli occhi, mentre i miei avrebbero pianto ai piedi dell’altare contemplando l’anima della sacerdotessa, della sacra madre, della sacra figlia. Oggi avverto sinistro solo l’odore di quei territori, effluvio di caprifoglio tanto dolce da virare a note fecali, eppure trovo la performance valorosa per due aspetti:
dimostra plasticamente, ai devoti di santoni, che la sacra esaltazione e stupefacenti deliri connessi, contriti o gaudiosi, sono creati dal soggetto venerante non dal venerato: togli il guru e metti nel recinto l’artista, o chicchessia, e funziona lo stesso;
Marina Abramovic implementa il "salone del sacro" delimitandolo all’interno di un museo. Tutto sommato il posto che si merita.