Stringato ma proficuo scambio epistolare con Padre Piero Gheddo sulla mia recensione alla biografia “Vita di don Giussani” di Savorana che gli avevo proposto, letta con interesse pur non condividendo parecchi dei miei giudizi.
Anche se distante su valutazioni non secondarie ho sentito Gheddo amico.
Sarà per la sua visione universale e inclusiva? Per la saggezza dell’età avanzata? Per l’approccio umano invece che ideologico? Forse. Eppure sono convinto che, ancor prima, tra le cause di simpatia la comune infanzia rurale.1
Vicende importanti quelle dei bambini che catturano serpi. Esperienze costitutive in apparenza rimosse nell’età adulta ma che impregnano, invece, tutta l’esistenza. Al suo finire carsiche ritornano potenti per ricondurci alla meta, là dove tutto è iniziato.
Mica dico che i bambini metropolitani siano svantaggiati anche se, forse, più raramente potranno cogliere quello strano sentimento di costitutiva alleanza.
1Gheddo scrive in una presentazione autobiografica:
«La risaia, vista in fotografia, non ispira. Invece, vissuta da ragazzi avidi di scoperte e di avventure, la grassa terra del riso, intersecata da canali e da fossi, con i solenni aironi dal lungo collo e le ampie ali, che planavano come piccoli aerei sulla terra appena arata e preparata per accogliere le acque della seminagione, era la nostra scuola e il nostro campo di apprendimento per la vita. Conoscevamo i nomi degli alberi (pioppi, conifere, robinie, pini, platani), dei fiori (mughetti, ciclamini, rose, margherite, ortensie, viole, papaveri, crisantemi, gigli, fiordalisi, garofani) e degli animali; eravamo presenti quando si svuotavano le risaie delle acque, mettendo grossi cesti al bocchetto per raccogliere carpe e tinche, rane e bisce acquatiche.»
Dalla mia autobiografia:
«Boschetti di robinie, lucertole, grilli, bande con le fionde. A cinque anni ero basso di statura e magrissimo, non mi piaceva tirare sassi ai nemici preferivo fare lo stregone. Avevo un paio di assistenti, il più capace l’avevo soprannominato “Ciulino”, l’avevo scelto perché catturava orbettini, piccole serpi lisce e quasi cieche, che infilava nel naso per farle uscire dalla bocca. […] Io mi limitavo a mangiare qualche zampa di cavalletta e formiche. Quando la banda catturava un nemico ordinavo agli assistenti di tenerlo fermo, così potevo pungerlo con le ortiche e poi impiastrarlo con l’intruglio d’acetosella; mi dava soddisfazione vedere il corpo del prigioniero diventare verde, un piacere intimo di una qualità precisa. Quel piacere era la bussola, la vocazione: vivere quello che mi piaceva. Le montagne là in fondo mi ammonivano che, anche se capace di far verdi i nemici, non ero Dio. Lui era a nord sulle montagne da là faceva arrivare il vento.»
Immagine: Terra grassa verso primavera, William Congdon