Bruno Vergani
Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.
Dicibile e indicibile
Esistono concetti limite che l’uomo per sua singolare natura tenterà continuamente di esplorare, ma non appena proverà a definirli si scompagineranno in fallacie o utopie.
Discipline e know-how si insegnano e s'imparano, la vita meglio di no perché non è riducibile alle possibilità conoscitive di chicchessia.
Santa incoscienza
Nel reparto dei vecchi decrepiti l’infermiera li assisteva contenta così, senza manco accorgersi, d’un botto liquidava nichilismo metafisico, epistemologico, esistenziale, morale e politico, pure il pessimismo cosmico ne usciva barcollando.
Tortuosi collegamenti
Consideriamo i concetti teologici (ma potremmo allo stesso modo ponderare altre concezioni) del regno di Dio o dell’economia della salvezza, oppure del corpo mistico costituito dalla comunione dei santi dove il bene e il male compiuti da un singolo si riversano su tutti gli altri. Concezioni oggi per lo più sconosciute e se conosciute giudicate generalmente assurde.
Com'è potuto accadere che visioni della realtà così singolari siano durate centinaia di anni, impegnando le migliori menti e determinando il vivere quotidiano di milioni di persone? Peraltro idee apparentemente esaurite ma invece sovente secolarizzate; migrate a nuova vita in concezioni ideologiche posteriori.
Forse un po’ come Freud vedeva nei sogni un contenuto manifesto e uno latente tutto da decifrare, il contenuto manifesto (letterale) di tali concetti è astruso ma non il contenuto latente, perché saldamente agganciato a incoercibili paradigmi del desiderio e ad archetipi che ci costituiscono.
Metabolismo
Ecco le complesse sostanze che mangiamo spezzarsi in elementi semplici, e con l'ossigeno dell'aria che respiriamo formarsi carburante che muove i muscoli, che produce coscienza, che sprigiona volontà, che ci fa emettere pensiero.
Forse proprio come i carboidrati, le proteine, i grassi, che contengono in sé l’energia che migrando nei muscoli li fa muovere, anche coscienza, volontà e pensiero se stanno annidati nell’aria e nei principi nutritivi, oppure albergano latenti in noi, o forse entrambe le cose più una terza:
l'azione universale ordinata e costante di un’economia cosmica, di una provvidenza per chi preferisce, che acquattata sovrintende l'intero processo.
Apologia di George Gray
Tra le più lette e citate piace un po’ a tutti la poesia George Gray di Edgar Lee Masters, quella dell’ “amore che mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io…” per timore di vivere buttai nel cesso tutta la mia esistenza. La cosa strana è che piace pure Pascal quando, nei Pensieri, afferma l’esatto contrario: “Tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza”.
Entrambi scritti discretamente esortativi: “Alza le vele ! Ammaina le vele !”, entrambi un poco moralistici; un po’ di moralismo non guasta, un pizzico di moralismo piace, siamo così tanto abituati al: “Non va bene così come sei" predicato dalle non poche pedagogie che aizzano ad oltranza ad un progresso personale illimitato, che se ci vien detto: “Vai bene così” ci troviamo a disagio.
Edgar Lee Masters era americano, gente che poco crede di non essere padrona del proprio io perché abitato da una dimensione inconscia, poco crede al condizionamento innato dato dal DNA e a quanto ci plasmano (definitivamente) i primissimi anni di vita, credono invece in un personale libero arbitrio perenne e onnipotente produttore di illimitata autodeterminazione, sovrani di se stessi tutti convinti che il coraggio, uno, se non ce l’ha, se lo dà. Ma anche se gli americani si proclamano onnipotenti e poeti e filosofi talvolta lanciano frasi ad effetto, non credo sia mai accaduto che un introverso sia diventato estroverso dopo aver letto George Gray, o che un estroverso iperattivo si sia chiuso quieto in una stanza dopo aver letto Pascal.
Che ha affrontato bene la problematica è Jung nella sua opera “Tipi psicologici”, dove annota: "L'ipotesi che esista una sola psicologia o un solo principio psicologico fondamentale costituisce un'intollerabile tirannia". Pluralismo di tipi psicologici ognuno con i suoi vantaggi e svantaggi: vi sono sì introversi pietrificati e depressi, ma anche temperamenti passivi che sanno riflettere e meditare in modo esemplare; vi sono estroversi pirla patentati ma anche estroversi che portano avanti la società, un tipo compensa l’altro. Siamo diversi tutto qui, e nonostante le ingenue esortazioni è impossibile passare da un tipo psicologico all’altro. Apollinei e dionisiaci, introversi e estroversi si è, mica si sceglie e George Gray era tipo da vele ammainate non poteva cambiare la sua natura, poteva però nella quota di libero arbitrio a lui disponibile diventare un introverso migliore, un introverso di valore, e forse lo era diventato anche se il suo autore non lo aveva capito.
Il cosmo e le sfide della storia
Curato da Orlando Franceschelli edito da Donzelli, il volume “Il cosmo e le sfide della storia” raccoglie scritti del filosofo tedesco Karl Löwith (1897-1973), allievo di Husserl e di Heidegger dai quali in seguito si distanziò. I testi proposti affrontano i percorsi filosofici e le correlate problematiche che hanno portato il mondo degli uomini a distanziarsi sempre più dal mondo della natura, fino al punto da affermare per il mondo dell’uomo una sua autonoma sussistenza ontologica.
Mondo umano fondato sul soggetto pensante, spirito sovrano produttore di storia e artefice di illimitato progresso, nella dominazione del mondo della natura, o nel suo oblio. Mondo della natura e dei suoi elementi che invece ci precede, al quale appartengono i funzionamenti biologici e le ordinate strutture fisiologiche che ci costituiscono, senza le quali non potremmo esistere, riflettere, trascenderci. Oblio della natura e tracotanza dello spirito umano che, con una brusca accelerazione negli ultimi due secoli, hanno prodotto da una parte esiti nichilistici e dall’altra costruzioni smisurate e disordinate, causa delle attuali crisi ambientali e socio-sanitarie, che stanno mettendo a rischio il futuro dell’umanità stessa.
Preceduti da una esauriente premessa del Curatore, che ci introduce nelle tematiche trattate nei testi di Löwith proposti nella raccolta, al contesto storico e culturale nei quali sono state elaborate e tracciando altresì, come in filigrana, il suo personale percorso di pensiero e di vita che lo ha portato, anche attraverso lo studio Löwith, ad abbracciare il naturalismo filosofico, del quale Franceschelli è oggi autore imprescindibile.
Nel volume sono proposti quattro incalzanti scritti di Löwith: “Mondo e mondo umano”, “Teilhard de Chardin. Evoluzione, progresso ed escatologia”, “La fatalità del progresso”, “La questione heideggeriana dell’Essere: la natura dell’uomo e il mondo della natura”, che per densità di contenuti risultano difficoltosi da recensire esaurientemente, più una appendice che riporta il discorso di Löwith in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’Università di Bologna, dove possiamo apprezzare la sua umanità nelle singolari vicissitudini storiche nelle quali è stato protagonista e il suo personale rapporto di affetto con l’Italia.
Il primo testo “Mondo e mondo umano” è indispensabile per inquadrare il problema della scissione, sotto alcuni aspetti irrisolvibile, fra mondo umano e mondo naturale. Partendo dai presocratici che riconoscevano l’auto evidente primato del cosmo fisico sovrumano e autonomo, Löwith dipana i passaggi che ci hanno portato, passando dalla concezione di Dio creatore della rivelazione biblica, poi in parte trasferitasi nelle ideologie post moderne, a subordinare il mondo della natura al mondo degli uomini, fino al punto di “fondare la totalità degli enti a partire dall’autocoscienza umana” (pag. 54).
Nel testo a seguire Löwith si confronta col principio antropico di Teilhard de Chardin, che vede l’entrata in scena dell’essere umano nel contesto naturale, fenomeno così stupefacente da giustificare un progetto divino del quale l’umanità sarebbe evento centrale, vocata insieme alla natura a un ottimistico progredire senza soluzione di continuità verso un destino glorioso. Principio mistico-antropico che Löwith esamina costruttivamente e con rispetto prendendone, però, le distanze: “Ma con quale diritto noi parliamo di fonti di vita progredite, ossia più elevate e più perfette, e non soltanto di forme diverse e nuove se non pensiamo ingenuamente in modo antropocentrico e non presupponiamo noi stessi come fine dell’evoluzione universale?” (pag. 74).
Nello scritto che segue “La fatalità del progresso” partendo dal mito di Prometeo, passando dal tardo medioevo di Bacone per arrivare ai nostri giorni, il filosofo tedesco illustra i rischi conseguenti all’impossessarsi dell’utilissimo fuoco se utilizzato senza misura e prudenza.
Il capitolo “La questione heideggeriana dell’Essere: la natura dell’uomo e il mondo della natura” scritto in occasione dell’ottantesimo compleanno di Heidegger, è il più complesso e insieme il più semplice e stimolante. Complesso perché complesso è il rapporto personale tra i due, come testimonia il carteggio con Heidegger proposto da Löwith nella prima parte del capitolo. Semplice e stimolante perché nella seconda parte viene architettata una critica articolata nei confronti di Essere e tempo, dove Löwith nella imperante, antropocentrica, dimensione esistenziale di gettatezza vede scomparire la natura senza che ne sia data ragione. Da qui sviluppa una spiegazione diretta, semplice e più che convincente, di quanto sia irragionevole prescindere dalla natura, che necessariamente ci precede e ci costituisce. Occorre fare un passo indietro per comprendere questa sua diretta percezione dell’auto evidenza ontologica della natura, così scrive nel frammento autobiografico riportato a pagina 131:
“Io avevo studiato contemporaneamente filosofia e biologia, e già al ginnasio ero stato stimolato dall’insegnamento che mi veniva impartito in ambito biologico. Qui, indagando al microscopio il flusso protoplasmatico presente nei filamenti di un fiore e il movimento di alghe monocellulari e di infusori, scoprii per la prima volta quale meraviglia di organizzazione vi sia nella vitalità di un organismo. Quello che non trovavo nella problematica esistenziale-ontologica, era la natura – intorno a noi e in noi stessi”.
In effetti senza alcun bisogno di tirare in ballo complessi, e sovente arzigogolati, concetti ontologici o metafisici, basta il senso comune per constatare che totalmente costituiti da ordinati elementi naturali non ci siamo fatti da soli. Se le cose stanno così il concetto esistenzialistico di esistenza; ex-sistenza vale a dire di un essere che “può uscire da sé” trascendendo la natura, comporta una “ambiguità ontologica” che andrebbe colta e risolta. Per essere credenti o miscredenti, idealisti o esistenzialisti, bisogna prima essere vivi, evidenza sulla quale non possiamo glissare dato che siamo, sussistiamo ed esistiamo, grazie alla natura.
Löwith espone al riguardo osservazioni semplici quanto convincenti, anzi più diventano semplici più si rivelano convincenti, a iniziare dal perfetto restare in vita del nostro corpo nel sonno profondo, circostanza che interessa un terzo del nostro esistere; vita indipendente da ogni personale coscienza, spirito, volontà o pensiero individuale; nello stato di sonno profondo, come nello stato del sogno notturno, permaniamo naturalmente individui specifici senza necessità di sforzo e consapevole volontà. “Ugualmente [al sonno] non abbiamo memoria dei primi […] anni di vita, che pure sono così decisivi per tutto il successivo sviluppo umano.” (pag. 138). Un esistere che si auto sostiene per forza propria senza l’intervento di un io cosciente. “La stragrande maggioranza delle cose accade senza coscienza.” (pag. 141). Ci si potrebbe anche chiedere, prendendo amichevole distanza da Löwith: o forse la stragrande maggioranza delle cose accade grazie a una coscienza universale che tutto pervade?
In ogni caso non possiamo non rilevare che chi subordina la natura al proprio spirito umano, non lo potrebbe fare se il funzionamento naturale non gli facesse scorrere il sangue nelle vene. Sommo funzionamento, annota Löwith, che alla luce forma l’occhio, che regola la complessissima coordinazione del movimento del corpo e l’orientamento che indica a noi e alle rondini la direzione migliore. Effettivamente basta il semplice constatare la forza ordinata e affidabile che ci fa digerire la frittata senza bisogno di essere gastroenterologi per emanciparci da antropocentrismi, nichilismi e latenti gnosticismi, quelli che borbottano che siamo stati gettati, non si sa da chi, in un brutto posto.
Löwith si spinge, con ragione, oltre: “Non è possibile neppure pensare in base alla volontà deliberata di farlo: è necessario che qualcosa ci venga in mente involontariamente; i pensieri devono giungere come se ci fossero capitati in sorte” (pag. 142). Naturale funzionamento involontario eppure precisissimo, eppure affidabile.
Karl Löwith
Il cosmo e le sfide della storia
A cura di Orlando Franceschelli
Donzelli Editore
2023, pp. LVI-160.
Vocazione
Ho letto che un vecchio e bravo sassofonista da ragazzino sentendo per la prima volta un sassofono gli era ribollito il sangue nelle vene, senza neppure sapere cosa fosse un sassofono. Probabilmente la vocazione è il naturale svolgersi di un nucleo innato[1]. Il possibile impiego di tutte le proprie forze al fine di compierla non è causa della sua realizzazione, ma un eventuale (non sempre necessario) elemento contenuto in quel nucleo originario[2].
Se è troppo in salita forse non è la tua vocazione.
___________________________________________
1 Vedi mito di Er
2 Nelle Lettere a un giovane poeta di Rilke, la domanda “Morirebbe, se le fosse negato di scrivere?” è di solito vissuta dagli aspiranti poeti come una esortazione a raggiungere tale stato, anche se forse è un semplice invito a verificare la presenza o l’assenza di una particolare caratteristica, un po’ come quando si verifica il calibro delle mele o il funzionamento dei freni di un veicolo, senza alcuna pretesa, enfasi o giudizio di valore.
Saggia disavvedutezza
Senza alcun continuo bisogno di porre mente a, di tenere conto, di considerare così da accumulare materiale per riflettere astrazioni separando concetto e realtà, come un gatto preferiva il diretto accadere del suo spontaneo riposare e agire nel succedersi delle circostanze.
Il moribondo vigile
Negli anni ’70 girava la barzelletta del prete che prima di somministrare l’estrema unzione al moribondo gli chiedeva:
“Credi tu al Padre al Figlio e allo Spirito santo?" e quello: “Ma cazzo son qui che muoio e mi vieni a fare gli indovinelli!”
In effetti il moribondo vigile è come il rilevatore di banconote false: gli ficchi dentro una certa visione della vita, un’intuizione del mondo, un concetto metafisico e quello, seduta stante, ti dice se regge o suona falso.
A occhio e croce mi sa che di tutto lo scibile filosofico e sapienziale regga ben poco, chessò…: il concetto di sinolo aristotelico non suona falso ma si può tranquillamente vivere e morire facendone a meno. Probabilmente superano la verifica del moribondo vigile le visioni che ridimensionano un po’ l’io e favoriscono lo spontaneo affidarsi al funzionamento della natura.
Frettolose conclusioni nichilistiche
Che il mondo è così ma anche, all’opposto, cosà, non significa che le cose s’elidono simultaneamente l’un l’altra e così non è più vero niente, ma che la realtà è evento complessissimo e in continuo movimento e noi arranchiamo un po’ nello stare al passo.