Alchimia
Dentro di noi abbiamo il mondo della percezione, dell’incalcolabile immaginazione, il mondo del pensiero che fluttuando elabora fantasie, concepisce idee e recepisce quelle che gli arrivano in sorte. Fuori di noi il mondo della materia, quello del colpo d’ascia del boscaiolo e dell'Apollo 11 con masse e spazi, forze e tempi, sì relativi nondimeno misurabili, prevedibili, duplicabili.
Federico Faggin -quello che ha inventato i microprocessori- afferma, metaforicamente, che il mondo interiore sarebbe di natura ondulatoria perciò quantistico, mentre il mondo esteriore di natura particellare (cioè costituito da atomi e molecole), vale a dire materiale. La differenziazione fra l'ontologia ondulatoria della fisica quantistica e l'ontologia particellare della nostra dimensione quotidiana, potrebbe essere una chiave di interpretazione delle biforcazioni e dei dualismi che hanno caratterizzato la storia della filosofia: sostanza materiale/sostanza spirituale, corpo/anima, materia/forma, esistenza/essenza, fenomeno/cosa in sé, apparenza/realtà, quaggiù/lassù, ecc.. Ontologie differenti quella ondulatoria e quella delle particelle, eppure interconnesse come ci ricorda il Rgveda: “Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda”.
Forniti di mente e di corpo viviamo, dunque, nel dualismo onda/particella, gli introversi preferendo abitare nel mondo ondulatorio interiore, gli estroversi frequentando il mondo particellare esteriore, rischiando entrambi di rimanere intrappolati in bolle e idolatrie: chi si attarda nel mondo quantistico interiore perché corre il pericolo di entrare in bolle intellettualistiche, in idolatrie delle parole, dette e scritte, e delle idee che rappresentano una qualche realtà ma che non sono quella realtà. Chi, invece, si perde nel mondo esteriore delle molecole rischia di sottomettersi alla dittatura della materia, del "Se non vedo non credo", del “Vogliamo fatti non parole”, del “Taci e fai!”
Forse l’arte di vivere sta nell’unificare questi due regni, stile Michelangelo che emana sul duro marmo “La Pietà” che gli fluttua dentro, demiurgo che trasforma l’onda in particella, come anche il fruitore di quell'opera che nel goderne ritrasforma le particelle del marmo in onde che gli fluttuano nell'anima.
Cliché
Nell’immaginario collettivo lo stereotipo della persona religiosa è quello di un individuo scuola, casa e chiesa, metà Nonna Papera e metà Grillo Parlante, ma le cose non tornano. Dovrebbero essere più scavezzacollo quelli che hanno fede in Dio di quelli che la fede non ce l’hanno, visto che il credente, fiducioso nella divina provvidenza, è portato a tirare dritto senza freni, alla spera-in-Dio, certo di fare bene grazie alla onnipotente e onnisciente regia sovrannaturale che lo ispira. Viceversa lo scettico miscredente, consapevole che quando si butta in aria la moneta nessuno sa se cadrà testa o croce, è portato alla prudenza, al devoto controllo, alla pia prevenzione, ad attuare tutti quei comportamenti e misure che diminuiscano il rischio di andare a sbattere. Insomma chi non ha fede è portato a essere un bravo ragazzo, a differenza dell’entusiasta in missione per conto di Dio, che tira dritto indifferente alle regole socialmente condivise. Lo stereotipo del bravo ragazzo religioso è, probabilmente, un prodotto delle religioni di Stato caratterizzate da una visione del sacro molto addomesticata.
Quando moralisticamente e frettolosamente si giudicano incoscienti e irresponsabili gli incauti e gli avventati, dai guerrafondai ai toreri, dai mafiosi agli stuntmen, bisognerebbe prima indagare se, e quanto, questo loro agire sia innescato da uno spirito religioso. In fin dei conti non esiste un diavolo che sia ateo.
E il giorno della fine non ti servirà l'inglese[1]
In contesti urbani succede che qualcuno non si accorga dell’esistenza delle piante, qualcun altro delle stelle: cecità botanica, cecità siderale… Ma visto che tali ciechi non vivono poi peggio degli erboristi e degli astrofili vedenti che s’indignano per queste loro cecità, alla fine va bene così.
Ci sono filosofi che dicono che non si può pensare al di là delle parole che conosciamo, e biologi evoluzionistici che spiegano come il linguaggio aumenta le funzioni del cervello, che così migliorato crea ulteriore e più puntuale linguaggio, che a sua volta stimola il cervello rendendolo ancora più performante, e così via. Ma se le cose stanno solo così, com’è che tutti i giorni incontro contadini pugliesi che pensano incommensurabilmente oltre le quattro parole del dialetto che sanno? E intelligenze artificiali sempre aggiornate di tutte le parole del mondo che non pensano nulla? Il contadino pugliese manifesta un quid, se non ontologicamente autonomo o soprannaturale, comunque emergente, forse precedente, che supera la somma delle parti date dal linguaggio e dall'abilità cerebrale.
__________________________________
1 Il re del mondo, Franco Battiato, 1985
Già e non ancora
“Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà” Mc 8,35
Non appena la coscienza entra in presa diretta nell’istante presente senza, dunque, interpretarlo suggestionata dalla memoria personale, in questa nuda consapevolezza d'essere metri e metronomi non servono più[1].
Forse in questo sottrarci alla misura e alla continuità siamo già un po’ eterni.
_________________________________________
1 Talvolta ottemperiamo misure altre volte le oltrepassiamo, qualche rara volta le trascendiamo ottemperandole, come il monaco che nell'hortus conclusus vede l'infinito, o il percussionista che obbedendo al prevedibile metronomo esterna -chissà da dove?- un mood estroso, o il poeta che grazie alla costrizione metrica espande l'orizzonte.
Hortus conclusus
I registi sul set, i bambini che giocano sul piazzale, i preti davanti all’altare, i teatranti sul palco, le rockstar nello stadio, i monaci nel chiostro, i calciatori in campo…
A un certo punto Homo sapiens ha circoscritto una porzione di spazio e ci è entrano dentro con una intenzione, rendendosi presto conto che più quello spazio era chiaramente delimitato e l’intenzione precisa, e più lì dentro accadevano cose migliori, o più interessanti, di quelle che succedevano fuori.
Chi?
La struttura dell’Io è tanto composita e fluttuante che risulta difficile rintracciare il titolare effettivo[1]. Ma allora, chi nasce? Chi esiste? E chi muore?[2]
________________________________
1 Senza necessità di far riferimento a sapienze orientali che ci dettaglino la dualità fra il Sé, ātman, e l'Io, aham, che nel contempo ci costituiscono, o agli eteronimi pessoiani, oppure ai personaggi pirandelliani che ci vivono dentro ognuno con la sua maschera, i suoi bisogni, le sue abitudini, i suoi tic, i suoi dialetti e i suoi gusti, o al teatro humeano della mente, dove l’impressione d’essere qualcuno è prodotta dall’affastellarsi di percezioni che passano e ripassano, scivolano e si mescolano, o ai Giani bifronte, ovvero alle scissioni e alle integrazioni psicoanalitiche e alle tante e diverse subpersonalità che ci abitano investigate dalla psicosintesi, basta e avanza l’osservazione empirica della semplice evidenza che possiamo riflettere pensando ciò che stiamo pensando, o che siamo capaci di un esame di coscienza personale dove parti di noi ne giudicano altre, per avere conferma che non è vero che siamo uno ma eclettiche ed eterogenee complessità. Nonostante un così fragile assemblaggio di numerose parti l’Io di solito non si disintegra, sì di tanto in tanto qualcuno scoppia, ma di solito permane aggregato. Verosimile che il mastice che lo tiene insieme sia la nuda e immediata impressione di essere, quella coscienza che al mattino sorge per forza propria quando ci svegliamo e che sempre ci accompagna, è difficile da percepire perché produce all’istante il pensiero: sono io, sono questo, sono quello, che subito la copre. Questa istantanea, naturale e nuda coscienza di essere, che precede e produce l'Io, l’Advaita Vedanta indiano dice che è un substrato onnipervadente, non è, dunque, prodotta dall'individuo ma è una sorta di campo diffuso che lo precede e ingloba. In filosofia lo chiamano panpsichismo ma dalle nostre parti se ne parla poco.
2 Riflettere sulla morte è riflettere sull'Io.
Separati in casa
Nella Chiesa cattolica dei nostri giorni ci sono momenti e tematiche dove il divario interno, fra tradizionalisti e progressisti, supera di gran lunga quello fra cattolicesimo e le altre confessioni cristiane. Non sarebbe male un bello scisma, così i quattro gatti ancora praticanti potranno optare per la Chiesa che più gli piace: due di qua e due di là. Diciamo “tradizionalisti”/“progressisti” come scrivono i giornalisti giusto per capirci, anche se qui sono definizioni imprecise[1]. Il punto è che, comunque le chiamiamo, lo scostamento fra le parti è diventato una voragine.
L’altro giorno collaborando a una iniziativa curata da un gruppo cattolico aperto, ecumenico, per nulla tradizionalista, impegnato nell’aiutare donne vittime di violenza, avevo partecipato alla messa. Era un bel po’ che non ci andavo così sono riuscito a osservare la cosa come se, arrivando da Marte, vi partecipassi per la prima volta.
Io non so se c’è Dio invece il sacerdote, dell’età di mio figlio, non solo era convintissimo della Sua esistenza ma, nella liturgia della messa, gli parlava direttamente. Parlava con Dio in italiano a tu per tu. Sappiamo che nel cristianesimo grazie all’incarnazione di Dio in Cristo, Vero Dio e vero uomo nell'unità della sua Persona divina, come recita il catechismo, Iddio puoi anche raffigurarlo, venerarne l’immagine e parlargli, perché con la mediazione di Cristo è superata la sacralità che ci separava dall’Onnipotente, quella che faceva togliere i calzari e nascondere la faccia per terra per non essere inceneriti dall’Innominabile Altissimo narrata dalla Bibbia: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.
Pur comprendendo la mediazione operata da Cristo che la Chiesa afferma, mediazione che renderebbe i fedeli figli di Dio, mi faceva strano sentire un giovane parlare faccia a faccia con Chi avrebbe creato l’universo. Mi colpiva il fatto che gli parlava con una noncuranza di fondo, data forse dall’abitudine. Se, come me, non sai se Dio c’è non gli parli, ma se affermi che c’è e gli parli pure mica puoi farlo con quella nonchalance, anche se ti consideri suo figlio. Stavo andando lì per dirgli: Ma sai cosa stai dicendo? Ma lo sai cosa stai facendo? Se l’Entità incommensurabile, inesprimibile, inconcepibile, l’Aldi là di tutto assoluto, l’Uno parmenideo, il noumeno platonico kantiano, il Dio di Spinoza, Il sommo funzionamento, invece di nessuno è qualcuno al quale credi di rivolgerti, mica puoi parlargli senza un minimo sindacale di timore e tremore.
Un po’ più di deferenza dovresti mostrarla, magari con formule solenni dette in una lingua antica, e poi un qualche dispositivo di protezione individuale, come quelli utilizzati per i lavori pericolosi, dovresti indossarlo: un paramento prezioso, un velo omerale per non bruciarti le mani nel maneggiare il Santissimo e poi, nell’armeggiare tale potenza, sarebbe meglio dare le spalle ai fedeli per proteggerli da eventuali deflagrazioni sovrannaturali.
Non ho tanto chiaro se ci sono o ci faccio, se sto facendo lo spiritoso o se nell'inconscio sono un tradizionalista sfegatato invece dell'agnostico che credo d'essere, non possiamo, però, negare che i tradizionalisti -dei quali nel conscio nulla condivido ma molto comprendo- hanno le loro buone ragioni per borbottare della Chiesa di Francesco. Il problema è che le due visioni nuotano in differenti e inconciliabili paradigmi: i progressisti nell’ortoprassi dell’amore per il bisognoso, i tradizionalisti nel sacro che prescegliendo alcuni si rivela nella storia attraverso questi.
_______________________________
1 Dato che l’etica del buon samaritano, che vede la misericordia e la compassione verso il prossimo fragile e sofferente, chiunque esso sia, è la cifra dei cosiddetti “progressisti”, ci porta a collocarli nella dimensione gesuana delle origini, quindi tradizionale nell’accezione di fedele interprete dell’ortoprassi originaria. Viceversa i cosiddetti "tradizionalisti" sono espressione di sviluppi culturali e dottrinali successivi, che hanno prima trasformato Gesù di Nazareth in Gesù Cristo e poi riformato la Chiesa primitiva nella Chiesa “romana cattolica”, costruendo una lirica dottrinale (dall'ortoprassi all'ortodossia) e una struttura istituzionale estranee alla Chiesa delle origini, in questo senso se non proprio progressisti potremmo definirli novatori.
Incantesimi
Entrato in una metafora non n’è più uscito[1]. Tante esistenze vanno così.
_______________________________
1 Non so se la Verità assoluta e la Realtà ultima ci sono precluse perché siamo limitati, o perché si muovono così velocemente che non riusciamo a fissarle, oppure perché non esistono. Sia come sia, visto che Verità e Realtà ultime sono pensabili e insieme irraggiungibili non ci resta che indicarle per mezzo di storie, miti, parabole, metafore, immagini, allegorie e simboli. Strumenti potenti e indispensabili, nondimeno insidiosi perché si può sbagliare storia, e ancor di più perché causa di delirio e intrappolamento se equivocati come realtà fisse e di per sé sussistenti, come succede a quelli che vanno in pellegrinaggio a Predappio, o ai i poliziotti morali iraniani che pestano a morte le ragazze che non indossano il velo secondo copione.