Uno-tutti
Il concetto di Dio come somma e unità di tutto ciò che vive, espresso con sfumature differenti dal Deus sive Natura (Dio ossia la Natura) all’Uno neoplatonico, dalla filosofia Ubuntu che seguiva Nelson Mandela all’“uno-tutti” e al “tu-tutti” formulati da Aldo Capitini[1], ancor prima di produrre un’etica esprime una ontologia: tu sei tutti gli altri[2]; tu sussisti perché noi siamo. Se le cose stanno così va da sé che mi prodigo per l’altro non perché mi sforzi precettisticamente di farlo, ma perché l’altro sono io. Sarà poi vero? E chi lo sa?
Questa mattina girando nel supermercato pieno di gente ho collaudato la strana concezione ipotizzando d’essere tutti quelli lì. La sensazione è stata buona, ho sentito azzerarsi quelle nascoste note di altezzosità che mi serpeggiano nell’intimo e una netta libertà da me stesso, mischiata a una sorta di piacevole espansione. Funziona bene, si potrebbe anche continuare. Una volta ero entrato in me stesso e non avevo trovato nessuno, forse proprio perché sono tutti?[3].
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1 In quel tu-tutti Capitini includeva anche tutti i tu delle persone morte considerandole compresenti.
2 Con angolazione diversa hanno affrontato la tematica anche Pessoa e Pirandello.
3 Ipotesi vietata ai minori, da considerare con estrema prudenza saldamente individuati.
Compresenze
Aldo Capitini osservava che fare reale esperienza di quelli che ci hanno preceduti in questa esistenza sentendoli qui presenti,
“fa sì che scompaia la pretesa di rivedere i morti tali e quali essi furono, con le loro abitudini, i loro modi, e quasi il loro linguaggio, la loro fisionomia se non le loro vesti. La compresenza [di vivi e morti] toglie via questa idolatria o chiusura della finitezza storica”[1].
Vale a dire il morto non è riducibile all’individuo e alla sua biografia; la foto della sua faccia col moccolo davanti è nient’altro che una parodia di quell’entità, che se realmente compresente è ben altro.
Si potrebbe integrare osservando che, pari, pari, vale anche per i vivi, perché siamo entità che tendono ad auto trascendersi, non riducibili ad un mero io biografico, con le sue abitudini e i suoi modi. Ma allora morti e vivi chi sono, cosa sono? Non lo sappiamo. Il problema è che pretendiamo di saperlo quando partendo dalla (giusta) osservazione che siamo entità costituite da un nucleo che ci porta ad auto trascenderci, tendiamo a equivocare - tradizione giudaico-cristiana in primis - questo auto trascendersi come espansione dell’io personale, una sorta di eterno, fisso, ringagliardire cosmico dell'individuo.
Forse meglio un trascendersi per sottrazione sbarazzandoci un po' di noi stessi. In effetti la natura funziona proprio così: “Se il chicco di grano non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”.
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1 Aldo Capitini (1899 –1968), La compresenza dei morti e dei viventi, Libreria Editrice Fiorentina, ristampa 2023 pag. 139.
Va da sé
Una madre che allatta convince il figlio semplicemente dispiegandosi, senza necessità di argomentare alcunché.
Potenza dell’omettersi, del dimenticarsi, dello sbarazzarsi di sé.
Proficua lacerazione
Lacerati fra il desiderio d’esserci e l’impermanenza data dal continuo divenire che muta tutte le cose, escogitiamo sistemi per non spaccarci in due. Sono tante le strategie per smorzare l’attrito fra essere e non essere, dalle più sfumate come la sottile soddisfazione di consegnare i personali cromosomi alla progenie, o il proprio sapere agli allievi, così da persistere un po’ di più, fino alle più chirurgiche ed estreme, dal credere ad un Creatore di un io personale stabile e imperituro, stile profeta Geremia con Dio che gli rivela: “Prima che ti formassi nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto”, o all’opposto puntare dritto all’annientamento dell’io, stile dottrina dell'anātman ossia del “non sé” propria del Buddhismo, che afferma la totale insussistenza dell'io.
Si potrebbe optare per una delle due soluzioni, un po’ come quando stacchiamo un polo dalla batteria dell’auto per evitare cortocircuiti, se non si rischiasse, qualsiasi dei due poli si escluda, una stasi mortale. In effetti il credente nel Creatore tutto convinto di sapere la verità definitiva, assoluta, rivelata, non avrà motivo di pensare ad altro, ancora meno di lui potrà fare e pensare chi nega se stesso; per fare e pensare bisogna perlomeno essere qualcuno. Concezioni opposte medesimo risultato.
Però potrebbe anche darsi che quella lacerazione primaria[1] non sia un problema da risolvere ma semplicemente da accettare perché motore di ogni agire[2].
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1 Più mi guardo dentro e intorno più constato che questo dualismo originario, questo barcamenarci fra Eros e Thanatos, è la cifra di Homo sapiens.
2 «Polemos [la guerra, nel caso di specie il conflitto interno] è padre di tutte le cose, di tutti i re». (Eraclito)