BLOG DI BRUNO VERGANI

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Mercoledì, 27 Dicembre 2023 20:58

Schiatta e sorge

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Freud nella conferenza “Noi e la morte” (1915), rendicontando sue fitte e accurate osservazioni cliniche osservò che, sotto, sotto, alla nostra morte mica ci crediamo poi tanto. Anche se deduciamo che alla fine moriremo anche noi, visto che vediamo gli altri prima o poi morire, Freud annota che questo nostro “alla fine” lo collochiamo in una distanza smisurata. Osservazione che guardandoci dentro risulta speditamente condivisibile.

Potremmo liquidare il fenomeno del disconoscimento della morte personale, interpretandolo con la notoria strategia dell’anestetizzare l’angoscia della morte, quello stratagemma psichico, forse biologico, che tenta di interrompere il penoso cortocircuito dato dalla volontà d’esserci a oltranza, che ci alberga naturalmente dentro, che cozza con l’effettiva finitudine biologica che invece constatiamo nel vedere gli altri morire. Freud nella conferenza elabora visuali più stimolanti:

“Per noi è assolutamente impossibile raffigurarci la nostra morte, ed ogni volta che tentiamo di farlo, ci rendiamo conto di assistervi da spettatori [vale a dire come qualcuno che è vivo e vegeto]. È per questo che la scuola psicoanalitica si è ritenuta in diritto di affermare che, in fondo, nessuno crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, che ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità”.

Messa così viene da azzardare che questa irriducibile sensazione di immortalità personale, non sia soltanto una scappatoia per lenire la paura della morte, ma abbia invece un fondamento ontologico oggettivo, anche perché non possiamo del tutto escludere che all’angoscia della morte personale attribuiamo un valore forse eccessivo rispetto a quello reale; indizi di sopravalutazione spaziano da Salvo D’Acquisto alle statistiche sui numerosi suicidi.

Per spiegare la sensazione di immortalità che ci caratterizza, potremmo ipotizzare un dualismo ontologico che ci vede nel contempo mortali e immortali. Giani bifronte[1] con una faccia con occhi che, sub specie aeternitatis, osservano la nostra imperitura rappresentazione interiore del mondo e l’altra che guarda là fuori verso il mondo mortale; facce interconnesse e differenti, dove una esprime l’individuale dimensione privata (accessibile solo a noi stessi), atemporale, non locale e non deterministica, l’altra la finitezza della dimensione esteriore pubblica, determinata da cause ed effetti, luoghi che mutano e tempi che iniziano e finiscono.

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1 Per dirla con Schopenhauer mondo come volontà e rappresentazione che i Veda raccontano così: “Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda”.

Ultima modifica il Giovedì, 28 Dicembre 2023 11:18

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