“E il giorno della fine non ti servirà l'inglese” (Franco Battiato, Il re del mondo, EMI 1979).
Si pensa poggiando su parole interiori e attraverso di queste, ma si pensa anche senza parole come fa il calciatore che tira giusto perché pensa giusto senza farsi discorsi[1].
Le parole materializzano l'invisibile pensiero e come fa il taxi lo tra-ducono così che arrivi a qualche destinatario. Il problema è che se partendo da questa indispensabile funzione della parola, diciamo così materializzante-logistica, si arriva all’equivoco di scambiarla per fondamento e mattone del pensiero, giungendo iperbolicamente ad affermare che possiamo pensare solo in base al numero delle parole che possediamo e che, dunque, se ne possediamo poche pensiamo poco e male, mentre se ne possediamo (capitalisticamente) tante pensiamo tanto e bene, è forse concezione un po' esaltata; potremmo chiamarla grammacrazia[2].
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1 Lo facciamo un po’ tutti questo pensare senza utilizzare parole, consideriamo gli esemplari di sapiens nati da poco, i vecchi analfabeti eppure saggi, tutta l’arte che non utilizza parole dette e scritte (roba sterminata), e anche l’arte che utilizza parole nelle sue significative pause e nelle espressioni di facce silenti. Lo fanno tutti quelli che sanno molto meno parole di Wikipedia ma pensano meglio e di più di questa, lo fanno i malati neurologici che cessano di parlarsi e di parlare ma non per questo di pensare, in fondo lo fa tutta la natura.
2 Così è per la parola vista in senso ontologico metafisico, ma non per questo possiamo negare che la parole costruiscono pensiero, e viceversa, specialmente in ambito sociale e politico, dove la miseria di linguaggio riduce la visione del mondo. Ma un livello non esclude l’altro, basta chiarirci di che cosa stiamo parlando, avendo chiaro il raggio d’azione, l’angolazione, ecc., per dirla filosoficamente lo statuto epistemologico che stiamo ottemperando.