Nel leggere degli stralci estrapolati dagli scritti di Giovanni Gentile, nei quali esponeva i concetti fondamentali dell’attualismo, concezione filosofica neoidealista che riconduce la realtà del mondo all’atto dell’Io pensante in quanto pensa, visione tanto assoluta da affermare che l’umana coscienza contiene lo spazio e il tempo e non viceversa, mi è tornato alla mente un mio risveglio post intervento chirurgico.
Ricordo che avevo più anestesia in corpo che sangue e la coscienza andava e veniva in un istante, come quando si accende e si spegne la lampadina del soggiorno. Quando si spegneva, nello sparire vedevo che con me si dissolveva il mondo, quando si accendeva, prima tornavo io e immediatamente dopo di me tutto quanto. Lì per lì avevo empiricamente indotto che il mondo esisteva grazie a me, ma trascorsa manco mezzora avevo giudicato quell’esperienza un avvincente delirio.
Vista la contiguità -con le debite proporzioni- tra quella mia empirica esperienza naif e la fine teoresi di Gentile, ciò che colpisce è che lui risoluto non indietreggia di un millimetro, anche se basterebbe un vaso di ortensie che gli cade in testa per interrompere la potenza di quell’Io che fa ontologicamente le cose, le quali indifferenti all’incidente continuerebbero gloriose il loro esserci poggiando su se stesse. Per quanto ho compreso Gentile non indietreggia perché, a differenza della mia ingenua esperienza post operatoria, prova a risolvere la dicotomia soggetto/oggetto interpretandoli come un’unica realtà:
«Così, o che si guardi l'oggetto visibile, o che invece si guardi gli occhi a cui esso è visibile, noi abbiamo due oggetti di esperienza: di una esperienza, la quale noi stiamo attualmente realizzando, e rispetto alla quale non solo l'oggetto, ma anche il soggetto dell'esperienza che viene analizzata, fatta termine della nuova presente esperienza, è oggetto. Se non che gli occhi nostri non possiamo guardarli se non nello specchio!» (G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro).
Il mondo prenderebbe, di volta, in volta, coscienza di sé nell’Io pensante in azione, e viceversa. Io che non va, dunque, equivocato con un antropocentrico e egotistico solipsismo, ma come coscienza in atto, spirito che comprende e fa l'esistente. Che lo faccia non lo so, ma che gli dia un momentaneo senso mi sembra plausibile.