Per campare faccio l’erborista, negli ultimi tempi innesto sempre più spesso il pilota automatico delle competenze introiettate e dei moti acquisiti, così mentre le mani autonome improntano tisane scruto in libertà gli avventori: dall’occhio triste di una giovane all’incisivo marcio di un vecchio. Ascolto quanto mi raccontano, materia prima che elaboro per poi scrivere, per piacere, tra una tisana e l’altra. Un po’ come fanno i rockettari che suonano in cantina dopo una giornata di altro e ben differente lavoro, quello rimunerativo, quello che indifferente al piacere e al dispiacere sostenti, come facevano Spinoza tornitore di lenti, Melville ispettore doganale, Kafka assicuratore contro gli infortuni, Pessoa corrispondente commerciale… Nonostante gli illustri predecessori non dispiacerebbe che i nostri rockettari invece di suonare gratis nel seminterrato, dopo una giornata di altro e faticoso lavoro, trovassero sopra un palco sostentamento da ascoltatori paganti e il minimo sindacale di gloria: il consenso per chi fa arte e anche per gli intellettuali è concupiscenza inestinguibile e in fin dei conti legittima. Invece no, la società sentenzia una scissione tra quello che ai rockettari piacerebbe fare e quello che invece gli tocca fare.
Sto provando a illustrare la diffusa problematica esistenziale denominata “sogno nel cassetto” nella fattispecie artistica e del correlato imperversante e un po’ bislacco giudizio di valore che colloca la figura dell’artista, a prescindere, in una sorta di Olimpo e il garzone del macellaio pregiudizialmente più sotto. Per risolverla, o perlomeno chiarirla, forse aiuterebbe buttare nel cassonetto della spazzatura il sogno e mettere nel cassetto il saggio filosofico Aut-Aut di Kierkegaard così da esplorare le radici della vita estetica (suppergiù ciò che ci piace fare) e di quella etica (grossomodo quello che è giusto fare e che dunque ci tocca fare). Kierkegaard nel considerare entrambe le categorie fondanti e - nonostante l’aut-aut del titolo italiano - compenetrate, smantella, anzi ribalta, il giudizio di valore che pone l’artista lassù e il garzone del macellaio laggiù. Già Giordano Bruno osservava che la provvidenza dispone che l’uomo «venga occupato nell’azione delle mani e contemplazione per l’intelletto, de maniera che non contempla senza azione e non opre senza contemplazione». Il Romanticismo rincara con Fichte: «anche l’occupazione ritenuta più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione e la libera attività degli esseri morali, è santificata allo stesso modo dell’azione più elevata; Hegel definiva il lavoro atto universale in quanto «mediazione tra l’uomo e il suo mondo».
In fin dei conti non esiste separazione tra il lavoro intellettuale, artistico e manuale, tutti con valenza universale nel loro connettere persone e cose. Che li separa è più la liturgia posticcia, derivante da frettolosi pregiudizi di valore, che batte le mani ad attori di avanspettacolo e cantanti neomelodici ma non applaude il fornaio che sforna pagnotte e il cardiochirurgo che aggiusta un ventricolo.
Ma ben prima della problematica del piacere e dell’alienazione, del consenso immeritato e meritato, nel percorso artistico è cruciale che non ci si impantani nell’imperversante equivoco di considerare solenne l’estro artistico e dozzinale il dover lavorare per bisogno[1], fino al punto di valutare il dovere etico antagonista e precludente la personale realizzazione (vocazione).
Dopotutto basta l’osservazione empirica degli artisti che si reputano tali per rilevarne pochi valorosi e tanti isterici. Ci sarà pure una qualche ragione per la quale nella storia del rock incontriamo percentualmente più morti premature che in quella dei minatori. Farebbe bene a tutti, artisti in primis, un lavoro normale in questo mondo.
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1 Necessità che i radical chic, artisti e non artisti, presumono di conoscere ma a loro inaccessibile, finanche concettualmente, perché conoscibile solo se vissuta con costrizione in prima persona.