Di tanto in tanto incontravo un depresso che giustificava il suo stato tirando in ballo filosofie e mistiche orientali. Le interpretava a modo suo più o meno così: «Io non esisto, sono un agglomerato di cellule che rispondono a decreti biologici, un paciugo di ricordi, ma io non ci sono.» Aveva tanto insistito col suo rimedio esotico fino al punto di valutare la sua apatia virtuosa, così la depressione era diventata severa e pure cronica.
Quando gli riferivo passaggi del mio cercare, dei miei tentativi di analizzare la realtà, mi guardava altezzoso, buttava le labbra all’infuori, abbassava gli angoli della bocca e sputava un: «E allora?» correlato da spallucce. Mica aveva tutti i torti, quel mio provare era sovente confuso e goffo, ma il punto era un altro: vedeva in qualsiasi elaborazione e iniziativa un mero assemblaggio di fotocopie, come quando mescolando colori differenti creiamo migliaia di altri colori, ma in pratica quelle migliaia di colori possono essere riportate ai sette colori principali presenti in natura, a che pro, dunque, elaborare?
E’ morto ripetendo il suo mantra di “e allora?-spallucce”. Perché mai sarà nato e avrà vissuto uno così? Forse anche per insegnarmi che sarebbe preferibile spirare con un “mi scoccia perché ho ancora molto da fare”, o ancora meglio con un bel “tutto è compiuto”, invece di “e allora?-spallucce”, per ben vivere prima che per ben morire.