BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Venerdì, 03 Febbraio 2012 12:08

Decostruzioni

Scritto da 

Derrida aveva dichiarato con riferimento a De Man: «Non ho mai saputo raccontare una storia».

Derrida si era inventato la strana professione di distruggere strutture, narrative comprese. Come un chirurgo che sventra decostruiva andando dietro alle quinte, nell' intimità strutturale del testo per enuclearne il significato reale. Approccio utile per leggere, con il rischio però di rovinarci il godimento narrativo, come quando di un fim vediamo il backstage. Rischioso invece per scrivere perché senza struttura narrativa le storie, e forse anche i saggi, non si possono costruire. Non a caso gli scritti dei filosofi del Decostruzionismo appaiono criptici, ellittici, quasi illeggibili.

La struttura e lo stile prima che tecniche sono conseguenza diretta ed immediata del punto di osservazione dal quale l’autore pensa e interpreta il mondo.
Che l’identica situazione possa essere descritta in modi differenti non è, dunque,  faccenda solamente tecnica ma di uomini.

Probabilmente il profeta Amos fotografava situazioni somiglianti a quelle scritte, 2600 anni dopo, da Marx ed Engels.
Quando scriveva così:
«Essi su letti d'avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e
 i vitelli cresciuti nella stalla. Canterellano al suono dell'arpa, […]  ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l'orgia dei buontemponi».

E invece gli altri due cosà:
«I comunisti […] proclamano apertamente che i loro scopi non potranno essere raggiunti senza il rovesciamento violento di tutto il presente ordinamento sociale. Che le classi dominanti tremino all’idea di una rivoluzione comunista!»

Si può considerare in qualche modo contigua a quella di Derrida la singolare e interessante “decostruzione psichiatrica” dell'opera di Pessoa, di M.A. Russo, U. Lancia, R. Viziali, VI Cattedra di Neurologia Università degli Studi "La Sapienza", che incollo a seguire.

Tutto  vero eppure nel contempo massacrante, banalizzante, però anche umoristico. Non sempre la "verità" procura vantaggi.
 

INTRODUZIONE

     "Non è propria dei tempi nostri altra poesia che la malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subietto ella possa essere. Se v'ha oggi qualche vero poeta, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa ispirazione (e senza ispirazione non v'è poesia degna di questo nome) è il melanconico" [G. Leopardi - Zibaldone].
 
     Il rapporto fra malinconia e genialità costituisce, come è noto, argomento del "Problema XXX,1", attribuito ad Aristotele: "Come mai tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti sono chiaramente melanconici e qualcuno di essi a un grado tale da soffrire di disturbi psichici provocati dalla bile nera?...”
     Prima ancora, ai tempi di Socrate e Platone, le dottrine popolari volevano che sacerdoti e poeti comunicassero con gli dei in uno stato di “follia” ispirata.  La  “divina follia”   (di cui si parla nel Fedro) e l'ispirazione potevano essere raggiunte solo in particolari condizioni (perdita di coscienza, malattia, pazzia, "possessione").
     Appartiene invece al periodo rinascimentale, con la ripresa di interesse per i rapporti tra genio, melanconia e follia, la distinzione tra "melanconici sani", capaci di grandi imprese, e individui impossibilitati a realizzare le loro capacità a causa della malattia (Jamison, 1993).
     Al primo gruppo, a nostro parere, appartiene la figura di F. Pessoa.
(2)
 
     "Pazzo, si, pazzo, perchè volli grandezza
come la Sorte non dà. (...)
...Senza  la pazzia che cos'è l'uomo
se non saziata bestia,
cadavere differito che procrea?"
                           (S.M. II, p.153)
 
     Una quantità di prove suggeriscono che, rispetto agli individui c.d. "normali", gli artisti, gli scrittori e le persone creative in genere sono allo stesso tempo psicologicamente "più malati" - sono cioè al di sopra della media in un'ampia gamma di misurazioni psicopatologiche - e psicologicamente "più sani" - si caratterizzano cioè per tassi molto elevati di fiducia in se stessi e di forza dell'Io (Jamison, 1993).
   Molti ricercatori hanno intrapreso studi riguardanti l'epidemiologia dei disturbi affettivi tra poeti e scrittori. Tra tutti spicca il dato recentemente riportato dalla Jamison (1993), secondo cui il diciotto percento dei poeti anglosassoni avrebbe scelto il suicidio.
   Fernando Pessoa rappresenta un esempio particolare in tal senso, in quanto nei suoi scritti sono presenti affermazioni di sofferenza psichica ed una commistione di autoesaltazioni megalomaniche e  di disprezzo per la quotidianità dell’esistere, il tutto nel contesto di una produttività cospicua ed artisticamente valida durante tutto l’arco della sua vita.
   D’altra parte, a sostegno dell’ipotesi di un disturbo psichico dello scrittore appaiono alcuni elementi facenti parte della sua storia, in particolare la familiarità per turbe psichiatriche. E’ in età infantile, infatti, che il poeta viene per la prima volta in contatto con problematiche di tal genere, allorchè la nonna paterna viene ricoverata in un ospedale psichiatrico di Lisbona. La sua storia personale inoltre è caratterizzata da esperienze di lutto (padre, fratellino), cui Fernando reagisce con la “creazione” del primo personaggio, presumibilmente con significato compensatorio e consolatorio, Chevalier de Pas.
   Se ammettiamo, in Pessoa, l’esistenza di un disturbo psichico, esso si esprime certamente con modalità multiple e quasi sempre difformi rispetto allecategorie nosografiche consuete.
 
La Schwermut
(3)
 
     "I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano."
(L.I., p.79)
 
     H. Tellenbach (1983), in contrasto con lo scritto della Jamison, afferma che la "Schwermut" (malinconia delle persone geniali) si declina con modalità differenti rispetto alla "Melancholie" (depressione comunemente intesa): non vi sarebbero disturbi dei sentimenti vitali e dei ritmi biologici, nè disturbi del pensiero e del comportamento quotidiani, nè fenomeni di cambiamento del vissuto corporeo, ma l'impulso geniale e la spinta creativa si inaridirebbero. La stasi profonda della vita spirituale porterebbe all'esperienza del venir meno di ogni possibilità, e, contemporaneamente, al dissolversi della trascendenza nel mondo e nell'esistenza dialogica, con la conseguente impossibilità dell'incontro con l'altro.
   W. Szilasi (1946) interpreta la tendenza melanconica delle persone geniali non come dato psicopatologico, bensì come “contrassegno strutturale”, cioè come “condizione dovuta alla struttura della possibilità dell’esistenza...”. All’esistenza del melanconico così inteso apparterrebbe secondo l’autore, il compito di “combattere contro le forze delle tenebre e contro l’indolenza del proprio cuore”, per cui “ogni vittoria [...] gli lascia solo una maggiore possibilità di vedere ciò che ancora non è stato superato, una nuova disperazione di ciò che è stato lasciato indietro...”. Questa continua sconfitta sarebbe all’origine della Stimmung melanconica.
 
(4)
 
"Fra me e la vita ci sono sempre stati dei vetri opachi. Non mi sono mai accorto degli altri (...) e non ho vissuto la vita o il suo progetto".
(L.I., p. 151)
 
   Tale scritto rimanda a modi propri del Dasein melanconico: il non poter vivere il progetto della vita, il non poter essere al mondo nella modalità umana della trascendenza.

     "C'è, tra me e il mondo, una nebbia che impedisce che io veda le cose come veramente sono - come sono per gli altri. Lo sento".
(S.M., I, p. 82)
 
 
     "Credo che nessuno ammetta davvero la reale esistenza di un'altra persona" (...) "Gli altri non sono per noi altro che paesaggio e, quasi sempre, il paesaggio invisibile di una strada nota".
(L.I., p. 53)
 
     Secondo Borgna (1992) nella depressività psicotica si ha il rischio possibile che non esista declinazione duale con il mondo degli altri e si giunga, nelle forme deliranti, elettivamente, alla condizione autistica.
     In queste depressioni, infatti, si attua con inaudita rapidità, la destrutturazione dell'incontro dialogico, che sconfina in una opacità immediatamente percepibile. Gli elementi costitutivi dell'incontro - aggiunge lo stesso Borgna - si modificano nella loro articolazione e, alla fine, l'incontro è vissuto come una pressione, cui si cerca di sottrarsi chiudendosi nei confini della propria soggettività. La libertà, con cui l'Altro da Sè è tematizzato in ogni autentica esperienza di dialogo, si trasforma nel contesto di queste forme depressive in una rigida determinazione e nel vivere  nel solo modo dell'isolamento e della elisione di ogni reciprocità di comunicazione.
 
 
     Ecco infatti quanto scrive il poeta:
 
   "La libertà è la possibilità dell'isolamento (...)
 
oppure:
 
        "La morte è una liberazione perchè morire è non aver bisogno degli altri"
        "Stanco, chiudo le imposte delle finestre, escludo il mondo e per un momento ancora posseggo la libertà. Domani sarò ancora schiavo (...)"
(L.I., p. 220)
 
***    
   Da un punto di vista psicodinamico, il distacco dagli altri può essere inteso come modalità di evitamento del dolore. Scrive M. Mancia (1990): “Per evitare il dolore la mente del paziente (in questo caso del poeta - n.d.r.) può rifugiarsi in modalità arcaiche di difesa, portarsi cioè verso posizioni pre-schizoparanoidi o ‘confusive’ (agitate o sognate) che gli permettono di negare la separazione o lo illudono sulla sua possibilità di un controllo totale sull’oggetto [...] Essi (i pazienti) affidano la loro mente a meccanismi molto primitivi di evitamento della sofferenza, diventano silenti, immobili, apparentemente insensibili [...] Sono tentativi - spesso riusciti - di addormentare emozioni, sentimenti, sofferenze, ma anche la gioia o il piacere di stare insieme [...] Il carattere di invivibilità può rendere il dolore molto simile alla disperazione insostenibile, al punto che l’unica preoccupazione diventa quella di evitare la sofferenza in qualsiasi modo. Ne consegue un inevitabile impoverimento della vita mentale e relazionale...”
 

(5)
 
   "...solo nell'illusione della libertà
      la libertà esiste."
(S.M., II, p. 31)     
   Ci si può qui riconnettere alle radicali riflessioni di Karl Jaspers e di Martin Heidegger sull’impossibilità di sfuggire alla propria situazione nel mondo. Jaspers (1933) così scrive “Io non posso rifarmi da capo e scegliere tra l’essere me stesso e il non essere me stesso [...] l’io che sceglie diviene la sua stessa situazione nel mondo, situazione storicamente determinata, oggettiva, particolare; la scelta (o l’illusione della scelta? - n.d.r.) diviene sempre e soltanto il riconoscimento e l’accettazione di quell’unica possibilità che è implicita nella situazione di fatto che costituisce il mio io”.
   Possiamo inoltre riferirci alla riflessione Heideggeriana (1927) secondo cui la trascendenza è la struttura costitutiva dell’esistenza e il mondo è il termine verso cui l’uomo trascende.
   Ma il mondo ricomprende in se l’uomo che si trova “gettato” in esso e sottoposto alle sue limitazioni.
   Se la trascendenza quindi è un atto di libertà, si tratta di una libertà che, nell’atto di esplicarsi, si condiziona e si limita in tutte le possibili direzioni, subendo le imposizioni del mondo.
   Il progetto quindi, unica modalità possibile dell’esistere, subordina l’uomo a sè, rendendolo bisognoso e dipendente:
 
   “La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perchè questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare”
(L.I., p.34).
 
Il Narcisismo
 (6)
 
"Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l'idea che ci facciamo di qualcuno. È un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo". (L.I., p.237)
 
   S. Freud, in “Introduzione al Narcisismo (1914)”, afferma: “Un essere umano può amare secondo il tipo narcisistico [di scelta oggettuale]:
a) quel che egli stesso è (cioè sè stesso),
b) quel che egli stesso era,
c) quel che egli stesso vorrebbe essere,
d) la persona che fu una parte del proprio Sè.”
   Esiste poi per Freud, in contrapposizione al precedente, un secondo tipo di scelta oggettuale, che egli definisce “per appoggio”.
   In “Lutto e Melanconia” (1917), come pure nella Lezione XXVI dell’Introduzione alla Psicoanalisi, il narcisismo è posto in correlazione con la condizione dello stato depressivo in cui la libido è regredita nell’Io, condizione che insieme alla perdita dell’oggetto e alla ambivalenza caratterizzano la situazione melanconica.
 
Depressività
(7)
 
     "Non sono niente.
      Non sarò mai niente.
      Non posso voler essere niente.
      A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo".
                                   (S.M. I, p.375)
 
     "La morte è la curva della strada,
      morire è solo non essere visto".
                                  (S.M. I, p.161)
 
     "E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi".
                                      (L.I., p.30)
 
     "...ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno".
                                          (L.I., p.32)
                                          
     Scrive Borgna (1992): "(...) Nel contesto di una dilagante estraneazione dell'Io e del Mondo, che la depressione trascina con sè, anche il corpo si destituisce della sua conoscibilità e della sua familiarità, della sua materialità e della sua trasparenza; e precipita in questa dissolvenza ed in questa nientificazione".
     Le parole di una sua paziente, Paola, somigliano molto nei contenuti ai brani sopra riportati di Pessoa: " (...) Anche la comunicazione, che ho con gli altri, si è fatta impossibile: faccio finta di provare dei sentimenti e faccio finta di parlare, di ridere, di meravigliarmi. Ho l'aria di esistere ma in realtà non esisto. Intorno a me c'è il vuoto e il mio corpo sprofonda in questo vuoto", come pure alcuni concetti espressi da Anna, una sua seconda paziente, presentano alcune analogie con quanto già citato di Pessoa: "Non sono più un essere umano. Non so, sono un mucchio, sono diventata una cosa senza senso, un nulla (...)" Ma lasciamo parlare ancora una volta il poeta: "Cosa buttata in un angolo, cencio caduto per strada, il mio essere ignobile finge sè stesso davanti alla vita". (L.I., p.161)
 
(8)
 
     "Ci sono giorni in cui salgono dentro di me, come se fosse dalla terra alla testa un tedio, una pena, un'angustia di vivere che non mi sembrano intollerabili solo perchè riesco a tollerarle".
(L.I., p.202)
 
   “Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto”
(L.I., p.34).
 
 
   “Il tedio...Pensare senza che si pensi, con la stanchezza di pensare; sentire senza che si senta, con l’angoscia del sentire; non volere senza che non si voglia, con la nausea di non volere [...]. Consiste in una sensazione diretta, come se sopra il fossato del castello dell’anima si alzasse il ponte levatoio e fra il castello e le terre circostanti restasse il poterle guardare senza poterle percorrere. E’ un isolamento di noi in noi stessi, ma un isolamento dove ciò che separa è stagnante come lo siamo noi: acqua sporca che circonda la nostra impossibilità di capire. “
(L.I., p. 140).
 
   “Sono arrivato al punto in cui il tedio è una persona, la finzione incarnata della mia convivenza con me stesso...
(L.I., p. 145).
 
   Leggendo gli scritti di Fernando Pessoa si ha spesso l’impressione di un oscillare tra la sofferenza della noia e la disperazione depressiva.
   E. Borgna (1992) sottolinea che “la noia come esperienza psicologica e la malinconia come stato d’animo (come Stimmung) sono forme di vita che si alternano l’una con l’altra e sconfinano l’una nell’altra in ogni esistenza umana [...]”
Noia che è “talora noia mortale e talora taedium vitae”: ma in ogni caso presente “nel contesto di un cambiamento radicale delle relazioni dell’io con il mondo e con gli altri-da-sè”.
   Nelle tematiche dell’esistenzialismo, i sentimenti di disperazione, inquietudine, noia, hanno una funzione rivelatrice della finitudine umana e della necessità di superamento di questa, con una sete sempre inappagata di assoluto: “situazioni emotive rivelatrici” (Pietro Chiodi, 1960).
   La noia, stasi non rassegnata della coscienza, racchiude in sè l’intenzionalità, cioè la tendenza a trasferirsi sulle cose,
che viene mortificata da oggetti che la respingono. La noia, quindi, con la sua presenza negativa, rivela radicalmente la necessità esistenziale di trascendere i limiti della propria soggettività, regione in cui, in condizioni di sofferenza psichica (e anche naturalmente nella malinconia come Stimmung), l’Esserci si trova come incarcerato.
 
 (9)
 
   "Mi sveglio di notte all'improvviso, e il mio orologio occupa la notte intera (...)"
(L.I., p.129)
 
   "Vivo sempre nel presente. Non conosco il futuro. Non ho più il passato L'uno mi pesa come la possibilità di tutto, l'altro come la realtà di nulla..."
(L.I., p.84)
 
   "Oggi mi trovo in uno di quei giorni in cui non ho mai avuto futuro. C'é solo il presente: immobile come un muro di angoscia, tutto attorno".
(S.M. I, p.99)
 
        I frammenti sopra riportati mostrano una profonda alterazione della costituzione dell’oggettività temporale.
   Tuttavia, dal confronto con le osservazioni di L. Binswanger (1960) riguardanti le modificazioni del vissuto temporale nel depresso, emergono significative differenze, quali la preponderanza, in Pessoa, della presentificazione, l’assenza dell'infiltrazione del  momento intenzionale costitutivo e strutturale dell'oggetto temporale "passato" (Retentio) in quello dell'oggetto temporale "futuro" (Protentio), e la mancanza di quel Dasein melanconico che in modo paradigmatico si progetta in un mondo di vuote possibilità.
   Emerge comunque l’impossibilità di protendersi verso un futuro, di anticiparsi.
   L’alterazione della temporalità è ancora evidenziata dal vacillare, o a volte scomparire, di quelle Figure Temporali che Minkowsky (1968) ha riconosciuto in stretta connessione con la “proiezione a-venire”: l’attività, il desiderio, la speranza, la volontà...
 

(10)
 
   "Non possiamo distinguere se certi tormenti profondi per la loro essenza sottile e ambigua, appartengono all'anima o al corpo, se sono il malessere causato dal fatto di avvertire la futilità della vita, o l'indisposizione che deriva da un abisso organico: lo stomaco, il fegato, il cervello (...) Oggi la mia anima è triste fino al corpo".
(L.I., p.68-69)
 
     Il brano ci introduce il tema dell'ipocondria su base depressiva e, d'altra parte, ci induce a riflettere su quelle forme cliniche note come "Equivalenti depressivi" o "Depressione mascherata".
     Nell'esperienza ipocondriaca - scrive Borgna (1992) - il corpo si fa oggetto estraneo e sconosciuto. Lo sguardo è radicalmente interiorizzato; e si astrae (si allontana) dalle cose.
     D'altra parte, "L'uomo parla il linguaggio del corpo in forme particolarmente chiare quando l'autentico strumento espressivo della comunicazione (il linguaggio della parola) si spegne a causa di una rinuncia alla comunicazione e a causa di una retrocessione del proprio Io" (Binswanger, 1935).
 
Le personalità
 (11)
 
   “Io vedo davanti a me, nello spazio incolore ma reale del sogno, i volti, i gesti di Caeiro, di Ricardo Reis e di Alvaro de Campos. Ho costruito loro le età e le vite.”
                                               (S.M. I, p.134)
 
   “Comincio dalla parte psichiatrica. L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. (...) l’origine dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica alla spersonalizzazione e alla simulazione.”
                                               (S.M. I, p.131)
   Come è noto, Pessoa è, per un luogo comune derivato da certi suoi critici, il poeta degli eteronimi - scrive Tabucchi (1971) -   Dai metodi psicoanalitici a quelli biografici la critica si è mossa intorno al caso-eteronimia sommergendo il poeta di aggettivi: “homme quadruple”, “poète multiplié”, “o sincero fingido”, “poète pulvérisé” ecc. Per Tabucchi gli eteronimi altro non rappresentano se non l’altro-da-Sè di Pessoa.
   Sono cinque poeti-personaggi inventati fino nel minimo dettaglio (la biografia, i caratteri somatici, la formazione culturale ecc.) che vivono, pensano e poetano in maniera autonoma. Tuttavia, per il critico, essi rappresentano essenzialmente livelli stilistici, più che i diversi aspetti o personalità multiple di Pessoa, considerato quindi - sono parole sue - “più poeta e meno genio ammalato”.
   Tuttavia, il mondo dello scrittore appare anche a Tabucchi caratterizzato da un atteggiamento di estraneità e insieme di rifiuto per una realtà fenomenica sicura e certa. Un mondo - egli afferma - “impossibilmente reale”...
   Scrive Jacinto do Prado Coelho (cit. in Tabucchi 1971): “La prima reazione di Pessoa davanti al mondo, incluso l’Io che riflette, è un sentimento di estraneità, un brivido di spavento. Pessoa si rifiuta, con tutte le forze del suo spirito, di accettare il mondo tale come le sue percezioni glielo trasmettono: è assurdo, non può essere”.
 
(12)
 
   “...e i velieri passano attraverso i tronchi degli alberi
con una orizzontalità verticale,
e lasciano cadere gomene in acqua dentro le foglie una ad una...
 
Non so chi mi sogno...
Subito tutta l’acqua del mare del porto è trasparente
e vedo sul fondo, come una stampa enorme che vi fosse spiegata,
tutto questo paesaggio, filare di alberi, strada che arde in quel porto...”
(S.M.,I p.145)
   
   Alcuni brani di Pessoa rappresentano, a nostro avviso, splendidi esempi di bi-logica: illustrano, cioè, la presenza simultanea di una logica bivalente (oaristotelica) e di una logica dell’inconscio, dominata dal principio di simmetria (Matte Blanco, 1981), nel pensiero umano: “nei sogni - egli scrive - nella formazione dei sintomi nevrotici, nel pensiero schizofrenico”.  E perchè no - ci permettiamo di aggiungere - nell’arte surrealista e presurrealista. D’altra parte, Contini (1977), pur osservando i testi con l’occhio del filologo, parla  di “procedimenti schizoidi”, riferendosi al distacco e alla contemplazione delle proprie operazioni poetiche in Pessoa.          Porto e strada alberata formano una “intersezione di piani”, realizzata -scrive ancora Contini - al modo di Boccioni o di Picasso. Ed in  tale “luogo virtuale”, in sintesi, consiste l’Io del poeta: “L’Io è il luogo dove si verificano simili incontri abnormi, ed è perciò trattato come uno spazio definito da complementi locali”. Orizzontalità e verticalità, che nella comune logica si escludono, sono trattati come compatibili, la materia è attraversata da altra materia, il colore è trasparente: tutto è, ancora una volta, “impossibilmente reale”...
   Il principio di generalizzazione (Matte Blanco, 1981), secondo cui “il sistema inconscio tratta una cosa individuale (persona, oggetto, concetto) come se fosse un membro o elemento di un insieme o classe che contiene altri membri; tratta questa classe come sottoclasse di una classe più generale e questa classe più generale come sottoclasse o sottoinsieme di una classe ancora più generale e così via” è, a nostro avviso, bene esplicitato da Pessoa quando afferma “Dio è l’Uomo di un altro Dio maggiore” (SM I, p. 185) e, ancora, a proposito dell’infinito: “Gradazione infinita degli esseri...” (SM I, p. 86).
   Dio è considerato come Manifesto e Immanifesto, come  Infinito ed Assenza dell’Infinito (il “Vuoto-Dio”). Nella “seconda logica”, infatti,  non vi è posto per il concetto di nulla, e un insieme vuoto delimitato come insieme comporta una qualche conoscenza dell’essere dei suoi possibili elementi; il vuoto è pertanto legato ad una qualche forma di esistenza (Matte Blanco, 1981).
 
 
   “Non potrò sentire perchè non avrò materia con cui sentire, non potrò respirare [?] allegria, o odio, o orrore, perchè non ho nemmeno la facoltà con cui sentire, coscienza astratta dell’inferno di non contenere niente, non-Contenuto assoluto [Soffocamento] assoluto ed eterno! Vuoto di Dio, senza universo...”
(S.M., I, p. 77).
   Considerando l’essere simmetrico - osserva ancora Matte Blanco - “ci troviamo di fronte a difficoltà radicali quando cerchiamo di pensarlo. Senza avere a disposizione relazioni asimmetriche nel nostro pensiero non vi è spazio, tempo nè movimento. Possiamo solo dedurre o inferire l’essere simmetrico; non possiamo immaginarlo poichè la nostra immaginazione lavora con fenomeni spazio-temporali. Una realtà spaziale e atemporale è come qualcosa che non esiste; in qualche modo evoca la morte. L’esser senza avvenimento ci sembra non-essere piuttosto che essere. Forse tutto ciò è dovuto alla limitazione della nostra coscienza che, per esser capace di apparire solo in termini di avvenimento, fa sì che vediamo il muto silenzio dell’essere senza spazio e senza tempo come se fosse il nulla o non-essere.”
   Analogamente, i corollari assenza di tempo e di spazio nell’inconscio, derivati diretti del sopra citato principio di simmetria, compaiono a nostro parere nelle parole: ”Spazio e tempo sono due attributi o manifestazioni dell’infinito, come se lo simulassero senza esserlo” (SM I, p. 87). E gli esempi per continuare sono numerosi, anche riguardo  ai concetti di condensazione e spostamento, caratteristici dello stato onirico così come del simbolismo artistico: d’altra parte, dice Pessoa, “Tutto è sognare”... (SM I, p. 173).
 
 (13)
 
   "Ho creato in me varie personalità. Creo personalità costantemente. Ogni sogno mio, appena che appare sognato, si incarna in un'altra persona che possa sognarlo, e non sono io.
     ...Per creare mi sono distrutto, mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi".
(O.P. II, p.179 in: Il poeta è un fingitore)
 
     "Essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo".
                  (S.M. I, p.329)
 
     "Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di sè stesso".
                  (L.I., p.38)
 
     "Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un'unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti.
     Come il panteista si sente albero [?] e addirittura fiore, io mi sento vari esseri. Mi sento vivere vite altrui, in me, incompletamente, come se il mio essere partecipasse di tutti gli uomini (...) in una somma di Non-Io sintetizzati in un Io posticcio".
(S.M. I, p.69)    
        Nella finzione artistica vi è sempre una "sana" scissione dell'Io (Ferrari, 1994). Tuttavia, F. Pessoa rappresenta certamente un caso particolare, oltrepassando in tal senso la mera finzione stilistica, mediante l’autonomia virtuale delle sue molteplici personalità.
        Se per Keats "la caratteristica del poeta è di non avere un Io" (egli "non ha identità, è continuamente intento a riempire qualche altro Corpo"), la figura (o le figure?) di F. Pessoa si attaglia pienamente a tale definizione.
     S. Ferrari (1993) pone l'accento sui meccanismi di tipo panidentificatorio che si riscontrano in alcuni poeti, citando gli esempi di Whitman, di Borges, di Pirandello.
     Nelle pagine finali di "Uno, nessuno, centomila" troviamo infatti: "Sono quest'albero. Albero, nuvole; domani libro e vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori vagabondo. [...] Muoio ogni attimo, io, e rinasco di nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori". Il protagonista, qui come nel caso di Pessoa, ha totalmente smarrito il senso del Sè. La sua identità, scrive Ferrari (ma le sue osservazioni sono a buon diritto applicabili al Pessoa di "Una sola moltitudine") - dopo essersi come frantumata in una molteplicità di Io, non riesce più a ricostituirsi: in quel gioco di proiezione e introiezione che è la vita di ciascuno, qui qualcosa è come spezzato: manca il momento del ritorno e della sintesi e rimane solo quello della proiezione.  C'è soltanto un continuo, incessante e disperato "gettarsi all'esterno" , aggrappandosi alle cose "di fuori", cercando di consistere in tutte le cose, appunto perchè non si è più nulla.
 
 
 
(14)
 
   “Io sono la periferia di una città inesistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. (...) E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell’abisso; sono il nulla intorno a cui questo movimento gira, con quel centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possedere un centro.”
                            (L.I., p.32-33)
 
   “Non subordinarsi a niente, nè a un uomo nè a un amore nè a un’idea; avere quell’indipendenza distante che consiste nel diffidare della verità...”
(L.I., p.236)
 
   “Amare è stancarsi di essere solo: è dunque una vigliaccheria e un tradimento verso noi stessi...”
(L.I., p. 258).
 
   “Ma a volte sono diverso e piango lacrime calde, le lacrime di coloro che non hanno né hanno avuto madre; e i miei occhi che bruciano di quelle lacrime morte, bruciano dentro il mio cuore.
   Non mi ricordo di mia madre. Essa è morta quando avevo un anno. Tutto quello che vi è di disperso e di duro nella mia sensibilità proviene dall’assenza di quel calore e dalla nostalgia inutile dei baci che non ricordo. Sono posticcio. Mi sono sempre svegliato contro altri seni, cullato per fuorviamento”.
                             (L.I., p.156)
   Osserviamo qui una interessante analogia con il concetto di “madre morta” di Green (1980), alla base - secondo l’autore - di una organizzazione difensiva della personalità di tipo narcisistico. Si tratta non di una madre fisicamente morta, come è noto, ma di una figura di "Adulto Significativo" psicologicamente assente, incapace ed inadeguata ad elaborare le ansie e a soddisfare i desideri del bambino.
   Gli oggetti interni creati dall’individuo di fronte a tali carenze, oggettidapprima parziali, avrebbero secondo Rosenfeld (1989) la caratteristica di essere sempre presenti per soddisfare i suoi desideri, insieme alla fantasia di un Sè onnipotente costituito sin dalle prime fasi dello sviluppo. Tali oggetti interni sono definiti da Mancia (1990) oggetti “protesici” o “sostitutivi”, nel senso che sono stati creati con il compito di compensare una mancanza affettiva e di fare fronte ai sentimenti di impotenza, esclusione, solitudine, inadeguatezza.
   Rosenfeld (1987) parla di “stile di vita narcisistico” per indicare il prevalere di questi oggetti sostitutivi, anarchici, compensatori, “posticci” direbbe Pessoa, che alimentano in lui la fantasia onnipotente di non aver bisogno di nessuno e la credenza delirante in queste sue capacità megalomaniche.
   Gli oggetti protesici, creati primariamente in relazione alla “madre morta” - oggetto deludente ed oggetto trauma - non possono dunque che essere di tipo narcisistico, in quanto tesi all’autoarchia, al “fare-da-soli”, e al tempo stesso propensi ad attaccare l’oggetto stesso: è la vittoria - scrive Mancia - del narcisismo distruttivo.
 
 
 
Il Falso Sè
(15)
 
   “Non so di chi ricordo il mio passato,
poiché altro fui quando lo fui, né mi conosco,
come se sentissi l’anima che ho,
l’anima che sentendo ricordo”
                             (S.M. II, 49-51)
   
   Nel tentativo di interpretare Pessoa, crediamo utile richiamare qui alcuni concetti winnicottiani, tra cui quello, fondamentale, di Falso Sè.
   Il Falso Sè si forma su una base di compiacenza e costituisce una parte scissa dell’individuo, non l’individuo “intero”. Esso può avere una funzione difensiva, che è la protezione del Vero Sè.
   Solo il Vero Sè può sentirsi reale; quando il Falso Sè viene utilizzato e trattato come reale, nell’individuo vi è un senso crescente di futilità e di disperazione.
   Winnicott (1965) cita l’esempio di una paziente con Falso Sè molto brillante, “che aveva sempre avuto la sensazione di non esistere e di aver sempre cercato un mezzo per giungere al suo Vero Sè”. La paziente, come alcuni personaggi pessoani, “non ha alcuna vera esperienza, non ha un passato”. E la storia che Pessoa narra nel dramma “O marinheiro” - ci sembra - ne richiama dolorosamente il vissuto.
 
 
 
 
   “Credo che il profondo sentimento che sempre mi accompagna di incongruenza rispetto agli altri, sia dovuto al fatto che di norma le persone pensano attraverso la sensibilità, mentre io sento attraverso l’intelletto”.
                               (L.I., p.154)
 
 
   Un caso particolare, per Winnicott, è quello in cui il processo intellettuale diviene la sede del Falso Sè: “Quando un Falso Sè si organizza in un individuo che ha un alto potenziale intellettuale, ci sono molte probabilità che l’intelletto diventi la sede del Falso Sè, e in questo caso si forma una dissociazione tra attività intellettuale ed esistenza psicosomatica”. Quando si instaura questa doppia anomalia - continua Winnicott - il quadro è tipico, in quanto inganna molto facilmente. La gente, infatti, vedendo il successo del personaggio, ha difficoltà a credere al disagio, peraltro molto reale, di costui, il quale, da parte sua, si sente tanto più “strano” quanto più ha successo.
   Talora la difesa del Falso Sè può formare la base di un certo tipo di sublimazione - precisa l’autore - come nel caso degli attori.
   E’ questo che accade nella stanza con innumerevoli specchi di Fernando Pessoa?
   Nel corso dello sviluppo - leggiamo infine nello stesso saggio di Winnicott - quando non vi sia un eccessivo grado di scissione nel  soggetto, esso può avere una vita quasi personale
tramite l’imitazione, potendo arrivare ad assumere un ruolo speciale, quello ‘del “Vero Sè come sarebbe se fosse esistito veramente’. Ed è in questa chiave, crediamo, che andrebbero interpretati i celebri versi:
 
   “Il poeta è un fingitore.
   Finge così completamente
   che arriva a fingere che è dolore
   il dolore che davvero sente”...
                                  (S.M. I, p.165)
 
Le difese
 (16)
 
   "Ormai padroneggio tutte le leggi fondamentali dell'arte letteraria. Ormai Shakespeare non mi può più insegnare ad essere sottile nè Milton ad essere completo. Il mio intelletto ha raggiunto una flessibilità ed una capacità tali che mi consentono di assumere qualunque emozione io desideri e di entrare a mio piacere in qualsiasi stato di spirito".
                                           (S.M. I, p.67)
 
     "Oggi, presa una volta per tutte la decisione di essere Io, di vivere all'altezza del mio ministero e di disprezzare perciò l'idea della pubblicità e della plebea socializzazione di me e dell' Intersezionismo, ritornato dal mio viaggio fra le impressioni altrui,  sono rientrato una volta per tutte nel pieno possesso del mio genio e nella divina consapevolezza della sua missione. [...] Se un atteggiamento vale l'altro, meglio il più nobile, il più alto e il più distaccato. [...] La superiorità  non si maschera da pagliaccio: si veste di rinuncia e di silenzio".
                                          (S.M. I, p.78)
 
     Abbiamo visto nei frammenti precedenti il momento negativo  dell'impoverimento dell'Io e dello smarrimento della Identità personale. Ma il movimento psichico che vi presiede conserva pur sempre, in Pessoa, una certa possibilità di ricomposizione e di recupero. Esso si avvale, a nostro parere, di alcuni meccanismi di difesa che sono chiaramente deducibili dai brani sopra riportati. Essi si manifestano come insieme che tende all'esaltazione panteistica, "come di chi si sente Uno col Tutto: l'Io esce dai suoi confini e non si smarrisce, anzi si dilata fino a comprendere il Tutto, senso oceanico da ricondursi piuttosto alla costellazione dell'esaltazione maniaca" (Ferrari, 1993).
     Concordiamo nel considerare come difese dell'Io di tipo maniacale quegli aspetti, di trionfo e di disprezzo (in senso kleiniano), che compaiono nelle parole del poeta.
   Possiamo connettere questo movimento difensivo, in una tale costituzione del Sè durante le prime fasi dello sviluppo, alla necessità di crearsi “un seno posticcio o protesico, un falso seno con caratteristiche autarchiche e megalomaniche” (Mancia 1990).
 
 (17)
 
        “Sto sviluppando qualità non soltanto di medium ma anche di medium veggente. Comincio ad avere ciò che gli occultisti chiamano ‘la visione astrale’ e anche la cosiddetta ‘visione eterica’. Tutto ciò è molto all’inizio, ma non ci possono essere dubbi.”
(S.M I, p.103)
 
   “Ci sono momenti, ad esempio, in cui ho perfettamente aurore di ‘visioni eteriche’, in cui vedo ‘l’aura magnetica’ di alcune persone e soprattutto la mia, allo specchio, e nell’oscurità, che mi si irradia dalle mani. Non è un’allucinazione, perchè ciò che vedo io lo vedono anche gli altri, o almeno un altro che ha le stesse facoltà mie più sviluppate. In un momento felice di visione eterica, sono arrivato a vedere, nella Brasileira del Rossio, di mattina, le costole di un individuo attraverso i vestiti e la pelle. Questa è la visione eterica al suo sommo grado.”
(S.M. I, p.103-104).
 
 
   “E a volte - sensazione questa molto curiosa - mi sento all’improvviso proprietà di qualche altra cosa. Il mio braccio destro ad esempio, comincia ad essermi sollevato in aria senza che io lo voglia [...] altre volte vengo fatto cadere da una parte come se fossi magnetizzato, ecc.”.
(S.M. I, p.104)
 
   L’esperienza con la teosofia e l’occultismo inizia per Pessoa con l’incarico di eseguire traduzioni di questo argomento per conto di una casa editrice di Lisbona. Da alcune testimonianze risulta che egli, in seguito a tale impatto, cadesse in uno stato di prostrazione, senza la capacità di agire o di parlare, della durata di alcuni giorni.
   A. Tabucchi (1971) individua nell’occultismo il terzo elemento presurrealista (eteronimia e fenomenologia ne costituiscono gli altri due) di Pessoa. “Ambiguamente la realtà è doppia e nessuna, e il nostro mondo un misterioso palco di confusione, in cui solo al poeta è dato di conoscere la Verità che abita oltre il sensibile. Perchè il poeta è vate, è medium delle forze sconosciute, è l’uomo-oggetto prescelto dal destino per percepire il mistero che ci circonda”. Così Tabucchi.
   Da parte nostra ci limitiamo a considerare le analogie tra lo stato mentale del poeta ed alcuni fenomeni psicopatologici quali il delirio di influenzamento, il pensiero magico, il furto del pensiero ecc..
   La lettera da cui sono state tratte tali descrizioni mostra la grande importanza che il poeta conferisce ai fenomeni di cui parla.
   “Il suo temperamento ipersensibile e ossessionato dal mistero dell’essere ne fu attratto. L’ultraterreno, l’occulto, dovevano esercitare sulla sua psiche una attrazione non indifferente, e la teosofia e il rosacroce forse apparivano come l’alibi estremo a un raziocinante sconfitto” (Tabucchi, 1971).
   Comunque è da osservare come l’intera vita di Pessoa, la maggior parte dei suoi scritti, le sue testimonianze, dimostrino l’assenza di uno sconfinamento di questi vissuti al di là dell’astratto concettualizzare che si dipana attraverso le vicende narrate in alcuni suoi brani.
   Sembra pertanto che, quando presenti, tutti gli spunti che ci appaiono comeappartenenti all’area francamente psicotica, debbano essere ricondotti a momenti difensivi della personalità, e che si possa senza dubbio accettare l’ipotesi così ben riassunta da A . Tabucchi, secondo la quale “Già Pessoa, come i surrealisti, aveva trovato nell’’Oltre’ una difesa”.
 
 
CONCLUSIONI
 (18)
 
   “...un unico pensiero mi riempie l’animo: il desiderio intimo di morire, di finire, di non vedere più alcuna luce su città alcuna, di non pensare, di non sentire, di lasciare indietro, come una carta da imballaggio, il percorso del sole e dei giorni, di togliermi di dosso, come un abito pesante, vicino al grande letto, lo sforzo involontario di essere”
                                           (L.I., p.46).
 
   “Riconosco che l’unica cosa che posso sperare è che questo giorno abbia una fine, come tutti i giorni”
                                           (L.I., p.45)
   
   “Se ti vuoi ammazzare, perchè non ti vuoi ammazzare?
[...] A che ti serve il quadro successivo delle immagini esterne
che chiamiamo mondo?,
la cinematografia delle ore recitate
da attori con pose e convenzioni prestabilite,
il circo policromo del nostro dinamismo senza fine?
A che ti serve il tuo mondo interiore che disconosci?
Forse, ammazzandoti, potrai conoscerlo davvero...”
                                        (S.M. I, p.361)
   
   Il Falso Sè ha il compito fondamentale di proteggere il Vero Sè, di ricercare le condizioni intese a permettere al Vero Sè di venire alla luce. “Se queste condizioni non possono essere trovate allora si rende necessaria lariorganizzazione di una nuova difesa contro lo sfruttamento del Vero Sè; e se l’efficacia di quest’ultima è dubbia, allora la conseguenza clinica è il suicidio. In questo contesto il suicidio è la distruzione del sè totale compiuta al fine di evitare l’annientamento del Vero sè. Quando il suicidio costituisce l’unica difesa rimasta di fronte al tradimento del Vero Sè, allora il destino del Falso Sè diventa quello di organizzare il suicidio.” (Winnicott, 1970).
   Alla luce di quanto formulato da Winnicott, la depressività atipica e inquietante di Fernando Pessoa ha un senso: quello di fare emergere, seppure in una ridda di pensieri contraddittori, sebbene all’interno di una ambivalenza di fondo che sempre lo contraddistingue, il Vero Sè che giace sul fondo di quel “Baule pieno di gente”...
Ci si potrebbe chiedere, in conclusione, se il “Sii plurale come l’universo”, sia stato per Pessoa un semplice manifesto letterario oppure l’espressione (stilistica quanto si vuole ma pur sempre personale), di un disagio psicologico profondo.
   In realtà, nulla vieta che esso abbia rappresentato  per lui entrambe le cose: siamo noi, in fondo, che abbiamo sempre bisogno di risposte univoche...
 
“...Dio non ha unità
come potrei averla io?”
(S.M. I, p.217)
 

Ultima modifica il Venerdì, 03 Febbraio 2012 15:43

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