Radiografia
Scruto una mia radiografia, potrebbe essere quella di un cadavere si presenterebbe nello stesso modo; potrebbe essere quella di un altro, si presenterebbe nello stesso modo. Forse questo corpo non è mio, appartiene alla natura, alla religione dei cinque elementi. I corpi mio o di altri, vivi o morti, dentro sono tutti uguali. Quando il respiro cessa diventano oggetti. Forse anche questo respiro non è mio, è autonomo ed appartiene alla natura, alla religione dei cinque elementi. I corpi dentro sono tutti uguali, i respiri sono tutti uguali, qualcuno continua, qualcuno cessa, qualcuno inizia.
Liturgia
Sul carrozzone della Chiesa cattolica romana si celebrano riti, tanto diversi tra loro, che sembrano appartenere a confessioni differenti: da una parte la messa delle chitarre scordate, omelia interminabile e Comunione con le mani; dall’altra quella in rito tridentino, in latino, con Comunione sulla lingua in ginocchio e donne con il capo coperto. Talvolta, a messa finita, le due fazioni si accapigliano in complesse diatribe liturgiche. Non rammentiamo che Gesù di Nazaret mostrasse interesse alcuno per la liturgia, se non per contestare formalismi e ipocrisie dei farisei. In effetti il problema più che divino è umano: la riforma liturgica conciliare degli anni ’60 ha coinciso con un progressivo e costante allontanamento dalla Chiesa cattolica dei suoi praticanti. Le cause sono numerose e complesse, non sfuggirà tuttavia di constatare che numerosi praticanti cattolici non si sono allontanati dalla Chiesa per diventare atei e neppure agnostici, ma invece per abbracciare liturgie sacre ancora più precise, esigenti e vincolanti nel Buddhismo o nell’Induismo. Già Paolo VI, negli ultimi mesi del suo pontificato, si era reso conto che qualcosa non andava nel “modernismo” da Lui inizialmente favorito e da lì la simpatia per i conservatori è continuata nei pontefici succedutisi in quanto, dati alla mano, il conformarsi ai tempi, specialmente in ambito liturgico, ha inaspettatamente svuotato le chiese. Per un’istituzione eterna e divina, ma nel contempo storica e condotta da uomini, dovrà necessariamente essere curata la forma; su questa terra un valore senza forma non può esistere e anche se dovesse esistere non potrebbe, comunque, senza forma resistere: liturgie forti, precise, dettagliate, con sacerdoti curati negli abiti, che officiano con sobrietà non sono faccende di stile attinente al formale decoro, ma cruciali nella sostanza: se un valore senza una forma non esiste quando la liturgia è sciatta, debole, approssimativa non è più gesto che agisce, ma commemorazione inefficace, morta. Fin qui, dunque, comprensibile un’attenzione alla liturgia che curi con precisione il gesto nelle istituzioni religiose e nelle tradizioni sacre. Così pure nelle attività artistiche e anche sportive, in quanto ambiti che possono trarre pienezza di vita e di risultati da riti ben confezionati. Ciò che differenzia i conservatori della liturgia cattolica dagli esponenti delle altre liturgie non è la precisione e neppure la fedeltà alla tradizione e neanche la complessità dei riti o la fattura e preziosità degli arredi, ma che i non cattolici terminato il rito lo buttano nel posto che merita: la spazzatura. Liturgia come mero strumento, gioco circoscrittto che consente di raggiungere il massimo della consapevolezza, completezza, libertà, realizzazione e per alcuni anche euforia nel massimo della costrizione e disciplina formale. Quindi consapevole libertà dalle forme che apre al mondo, inclusiva mai elettiva. Invece, non di rado, i conservatori cattolici equivocano il significato con lo strumento per raggiungerlo; buttano il contenuto e tengono la confezione che diventa feticcio, idolatria, potere che giudica negativamente il diverso da loro, così attorniati da ostensori a raggiera, reliquiari e navicelle per incenso pontificano ieratici metafisiche idiote e politiche antievangeliche. Meglio la sciatteria.
Quel minchione di babbo Natale
M’informano che da lassù sta arrivando quaggiù il re del cielo e da nord quel minchione di babbo Natale a portare giocattoli di plastica. Imprigionato al gruppo ingurgito quel che arriva nel piatto. M’informano che è amore. Non mi piace, ma rimango lì."Talvolta un uomo si alza da tavola a cenaEd esce e cammina, e continua a camminare,Perché da qualche parte a oriente sa di una chiesa.E i suoi figli pregano per lui, come se fosse morto.E un altro uomo, che muore nella sua casa,Nella sua casa rimane, dentro il tavolo e il bicchiere,Sicché i suoi figli devono andarsene nel mondo, lontano,Verso quella chiesa, che il padre ha dimenticato."Rainer Maria Rilke
Morale e moralismi
Fino all’altro ieri talvolta capitava che i cattolici praticanti erano giudicati moralisti, un automatismo concettuale, una specie di tic che scattava nei miscredenti quando un cattolico, magari conservatore, affrontava tematiche sessuali, o esprimeva giudizi contro i malfattori, oppure insofferenza all’incoerenza. Negli ultimi mesi la situazione è mutata: il tic dell’antimoralismo ha invasato proprio quei cattolici che n’erano vittime. Se stimolati in punti specifici: la pedofilia in ambienti cattolici e l’immoralità del Premier scattano rapidi come la rana di Galvani contro l’interlocutore per accusarlo di moralismo. Sono i cattolici neoconservatori berlusconiani, provate a parlare con uno di loro per averne immediata conferma e se non lo trovate ascoltate Maurizio Lupi quando gli ricordano l’incoerenza tra la dottrina cattolica di cui è paladino e il comportamento di Berlusconi. Lupi reagirà di scatto indulgente verso il capo e spietato contro gli interlocutori, che giudicherà moralisti e ipocriti. Com’è potuto accadere, in così breve tempo, uno scambio di ruoli tanto radicale? Perché tacciare di moralismo e ipocrisia, accusa odiosa, chi invita al pensiero logico e ad un minimo di coerenza? La motivazione è la difesa ad oltranza del leader e sappiamo che tale compito, se il capo è Berlusconi, è arduo. I conservatori del secolo scorso un qualcosa di divertente e anche di po’ logico avrebbero escogitato rispetto agli attuali, che invece vanno a prendere in prestito e a sproposito, il pensiero di Don Giussani per giustificare il capo. Proprio da lì arriva l’accusa di moralismo per chi attacca Berlusconi. Nel testo tratto da “Generare tracce nella storia del mondo” (Rizzoli) Don Giussani scrive: “Solo Dio misura tutti i fattori dell'uomo che agisce e la sua misura è oltre ogni misura: si chiama misericordia, qualcosa per noi di ultimamente incomprensibile. Come l'uomo Gesù che ha detto di coloro che lo uccidevano: “Padre, perdona loro perchè non sanno quello che fanno”: sull'infinitesimo margine della loro ignoranza Cristo costruiva la loro difesa. La nostra imitazione di Lui è nello spazio della misericordia. Per questo la moralità è una tensione di ripresa continua. Come un bambino che impara a camminare: cade dieci volte, ma tende a sua madre, si rialza e tende. Il male non ci ferma: possiamo cadere mille volte, ma il male non ci definisce, come invece definisce la mentalità mondana, per cui alla fine gli uomini giustificano quello che non riescono a non fare”. Morale come tensione ideale invece che sudditanza a precetti. Si può essere d’accordo oppure dissentire perché il pensiero è chiaro, ma la forzatura di assimilare un bambino che cade e si rialza con un anziano signore che ostenta le sue avventure erotiche a pagamento, mentre presiede un governo che storta il naso alla proposta di distribuire i preservativi nelle scuole per prevenire infezioni da HIV, è invece tutta da chiarire.
Non lasciate che i bambini vadano a loro
Chiesa cattolica e abusi su minori Il Vescovo di Grosseto, Mons. Babini, dichiara alla stampa: "… Se mi fosse capitato un pedofilo non lo avrei denunciato, ma cercato di redimere. Un padre come é il Vescovo per un sacerdote, non denuncia i figli che sbagliano e si pentono. Ma con i viziosi [gli omosessuali N.d.a.] bisogna essere intransigenti". Pedofili assolti, omosessuali condannati. Augusto Cavadi, filosofo e teologo palermitano, legge e non può tacere perché avverte che ogni omissione di parola equivarrebbe a complicità, così procrastina gli impegni presi per iniziare la scrittura del libro “Non lasciate che i bambini vadano a loro” con sottotitolo “Chiesa cattolica e abusi su minori”, oggi in libreria edito da Falzea. Lo scrive su due registri, che si compenetrano: quello del saggio-inchiesta, dove partendo dai fatti accaduti e dai documenti ecclesiali espone il problema e quello filosofico, teologico-ecclesiologico dove con lucidità enuclea “qual è, esattamente, il problema”. Una prima lettura d’un fiato ci condurrà pertanto ad una “ruminazione” post lettura; il boccone è amaro e Vito Mancuso, che scrive la premessa, denuncia la causa: “La peculiarità dello scandalo non è tanto la pedofilia di preti e Vescovi, quanto l’insabbiamento da parte delle gerarchie”.Cavadi spiega nello specifico i motivi di fondo, le problematiche strutturali e gli automatismi concettuali, che hanno portato, troppo spesso, gran parte della gerarchia ecclesiastica a bypassare con assoluta disinvoltura quanto realmente accaduto, in nome di una autorità umano-divina che giudica e interpreta autoreferenzialmente la triste realtà degli abusi in ambito ecclesiale: i panni sporchi si lavano in casa e la faccenda finisce lì, anestetizzata da pentimenti tardivi, coperta da ipocrisie sistematiche, omissioni, insabbiamenti, reticenze, connivenze e complicità: peccato da perdonare invece che reato da sanzionare. Qui individua i meccanismi strutturali che all’interno della Chiesa cattolica prima favoriscono poi coprono deviazioni individuali e collettive: obbedienze inevitabili, confessioni private, processi formativi dei presbiteri, sacralità separata, dualismi gerarchici e la relazione sesso-potere. L’Autore non solo spiega esaurientemente il perché e il come sia potuto accadere che minori siano stati abusati in ambienti cattolici, luoghi deputati alla cura dei bambini, ma offre indicazioni e proposte operative perché non abbia ad accadere in futuro. Libro da leggere ed approfondire per non fermarsi ad una denuncia ideologica, generica, intermittente, superficiale.Non lasciate che i bambini vadano a loroChiesa cattolica e abusi su minoriAugusto Cavadi€ 11,90 Editore Falzea
Biografie
Arriva un tempo dove si avverte la necessità dell’autobiografia, anche se non intendiamo raccontarla ad altri e neppure scriverla essa vuole, per forza propria quasi fosse un’entità autonoma, che sia perlomeno pensata e intimamente narrata; la nostra storia ci chiama, fa affiorare ricordi dimenticati, attiva pensieri ed elaborazioni. Il contenuto e lo stile del processo è misterioso, non assomiglia all’esposizione di un curriculum vitae, ad un mero elenco cronologico di fatti accaduti in tempi e luoghi noti, com’è d’uso invece per le biografie: “nasce il; a; finiti gli studi; compie viaggi; si sposa; a quel punto compie azioni, poi muore il; a”, in una “successione” concatenata d’avvenimenti che, se piacciono al biografo, vengono definiti -per l'appunto- “successi”; poi alla fine l’autore scrive, se non vivente, l’indirizzo dove giacciono, oppure riposano, le spoglie mortali del personaggio. L’autore segue il modello preimpostato e riempie i campi.Questo approccio scialbo, trito e ritrito ci permette di cogliere il personaggio nel contesto storico e di conoscerne la produzione, ma il carattere unico, il cuore della sua umanità, insomma “Lui” non emergerà; basta fare un giro su Google e digitare “autobiografie” per averne conferma: la biografia di Diego Abatantuono ci apparirà, nella forma testuale e nei contenuti, più interessante di quella di Nietzsche e non possiamo escludere che alcuni santi rabbrividirebbero nel dare un’occhiata all’agiografia che li celebra. Se un autore scrivesse la nostra biografia in questa forma è plausibile che la avvertiremmo estranea, limitata, un po’ disonesta. Perché non ci rispecchiamo? Dov’è il tradimento? Dove le omissioni se la biografia appare tempestiva e congrua come un verbale steso dai Carabinieri dopo sopralluogo? Cos’è questo di più che sentiamo e pensiamo d’essere? L’autoraccontarsi la propria esistenza, invece di farcela raccontare da altri, è forse il tentativo di incontrare quel quid -dentro e oltre i luoghi, i tempi e le azioni- che ci caratterizza; quel qualCosa senza uguali, in altri termini è cercar risposta alla domanda fondamentale: io chi sono?Non di rado si cerca risposta in quello che gli altri pensano e dicono di noi; quante volte si dice che l’iniziativa, il pezzo, l’opinione, “funziona”; cosa significa funziona? Significa che trova consenso. Se questo è l’unico criterio di giudizio saremo portati a tradire il carattere, la vocazione, per conformarci ed omologarci. Rainer Maria Rilke in “Lettere a un giovane poeta” da al riguardo indicazioni inequivocabili, artistiche ed esistenziali, agli antipodi dalla ricerca di consenso: "… morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta."Possiamo tuttavia osservare, che quando la personale biografia viene pensata ma non detta e neppure scritta lascia un retrogusto rancido; si percepisce qualcosa di noioso e asfittico: un io un po’ ipertrofico, che di tanto in tanto borbotta, in atteggiamento un po’ masturbatorio. Lo strumento dello scrivere, del portare fuori, ci emancipa dal rancido perché favorisce una sana distanza da noi stessi, il percorso diventa ancor più proficuo se dopo averla scritta, leggiamo l’autobiografia a qualcuno, magari a molti.Si può iniziare con un diario, compito impegnativo perché un diario non è una cronaca e neppure un’agenda, oppure dal presente per andare a ritroso, o anche dall’inizio. Tutto sommato in questi territori il prima e il dopo sono relativi: tutto accade insieme, sovrapposto, mischiato. Basta guardare in faccia un vecchio, se non si è mascherato con un lifting, per constatare fisicamente l’istantaneità del continuo-infinito-presente: tutta la sua storia, il suo cuore, il pensiero irripetibile, insomma il carattere è scritto in quel volto, magari in forme enigmatiche, con-fuse ma è lì. Forse la comprensione non è un processo, ma un evento istantaneo.
Memorie di un ex monaco
Consiglio, la lettura delle “Memorie di un ex monaco” prima di continuare. La sua vita è stata redenta dall'infelicità, grazie ad una persona che le ha parlato per cinque secondi. Avrebbe dovuto accorgersi che l'unico modo per guarire dalle sue fragilità, sarebbe stato riconoscerle. Dedizione completa ad una donna. Non è poi la stessa cosa? Pensare a quanta dedizione, a quanto tempo sprecato, a quanta quantità di sofferenze per un ex innamorato... Bella e senz'anima. Se la cosa è insostenibile non taccia, ma non la trasformi neppure in parodia. Il dramma è falso. La lirica è vera. Se la vita le è insostenibile, come appare tuttoggi, significa che non è ancora guarito... Detta la precedentemente boiata, possiamo esprimerle più chiaramente il nostro pensiero. Il pensiero nostro, cioè di quelle menti sane che hanno sicuramente riconosciuto il suo teorema. In pratica lei, uomo abietto e senza volontà, adolescente venticinquenne, si faceva massacrare gli occhi da un'idiota pieno di boria, perchè in un colloquio durato cinque secondi, avendo espresso il suo desiderio di "dedicare la vita a dio", un prete maleducato le ha risposto "fatti monaco". Terribile... Per farla breve, a parte il dramma che lei mette in scena su questo palcoscenico, il suo dramma non esiste. Lei non rappresenta l'unico caso tremendamente esistenziale, dove il protagonista della propria vita, per verificare la veridicità di un proprio desiderio, si mette (o viene messo) alla prova. Miti antichi, moderne fiabe, ci raccontano gli ostacoli (l'idiota borioso è il più patetico)che separano i due giocatori d'amore l'uno dall'altro. Ostacoli che servono proprio all'amore, che può esserci soltanto se esiste e che per esistere deve essere reale e che per essere reale...ecc. Per cui, lei, oggi, schiavo a cinquant'anni di quei cinque secondi, quello che deve chiedere a sè stesso e a quel pensiero sublime, che nella strana congiuntura trina del cristianesimo è il vocabolo di Uomo, Spirito ed Essere, e che secondo rivelazione sarebbe verità reale, non è certo la sua giovinezza (che le ha letteralmente ingurgitato una vita). Piuttosto la sua maturità. Lei è un coglione tuttoggi e tuttoggi non è ancora capace di ammetterlo. Per quanto riguarda il resto, essendo noi menti sane al contempo anticlericali fetenti, come la maggior parte dei cattolici, non possiamo darle retta. Spretati ed ex monaci, pretaglia dalla mente fragile, che chissà a quale altra propaganda avrà dato il compito di orchestrare i propri pensieri. Ovviamente il suo amaro, turpe, parodistico scritto traccia un'ampia parabola della sua palese ridicolaggine. E il peso imponderabile dell'idiozia umana diventa tangibile, reale (oso dire). Dunque redimibile. Almeno nel cristianesimo. Avendo concluso lo scritto, confermo il pregiudizio.Ovviamente la vita non è questa, il bisogno d'eternità non è così incombente, almeno non quanto altro, e dio non è così lontano. Materialmente ateo, cuore religiosissimo, verginalmente imposseduto dalla chiesa (più che altro dal suo corpo), posso esprimere liberamente il dissenso per il mio egoismo e appropriarmi del concetto d'appartenenza... in questo caso, alla corporeità ecclesiale. Semplicemente "monitorandola".Dunque si tratta di quale esperienza cristiana si ha intenzione di vivere. Certo è che l'esperienza monacale del cristianesimo è estrema. San Paolo e Don Giussani simili. Uomini. E non è detto che lo spirito santo agisca sempre e comunque.Forse posseduto da una visione personale. Bah. Mistica soggettiva o meno, non ho deciso, non ho scelto di fare il frate. Lei pensa come un memores dominii tutt'oggi, non ha mai smesso di esserlo. Ma prima di essere monaco dovrebbe essere cristiano: O'Connor, Chesterton, Lewis. Obbedienze meno serie, più giocose. Anche se per questo non meno dolorose, ma forse corrispondenti. Addio.
Rispondo a "Manfredi"
Il suo intervento, in tre puntate, è nel metodo una boutade: arriva, legge il racconto "Memorie di un ex monaco" come se esaminasse una cartella clinica; equivoca l'Autore col protagonista della storia; lo giudica impostore, diagnostica una malattia cronica, prescrive O'Connor, Chesterton e Lewis, perché convinto che il veleno in diluizioni omeopatiche fa bene poi, come in un film di Sergio Leone, sparisce, anonimo, in un addio.Ansia apologetica la costringe, malgrado l'intermittente lucidità di pensiero, a confusione di giudizio anche nel merito delle "Memorie" che interpreta "espressione di palese ridicolaggine personale" e nel contempo di "Miti antichi" collettivi; che giudica scritte da "una mente fragile alla quale non dare retta" mentre si attarda nottetempo a leggerle per rispondere con urgenza all'aurora; faccia un po' lei. La notte serve per dormire, sognare è cosa seria, nel frattempo se proprio non riesce a riposare confidi meno negli aggettivi e anche negli avverbi, anche il figurativo va usato con parsimonia; servono a poco nel dire e nel comprendere, ancor meno nel vivere: se il protagonista è "un coglione" ne consegue che "il Vecchio", oltre ad essere tossico come lei ha diagnosticato è pure ciarlatano, ma quella della complicità di coglionazzi che ingannano coglioncelli è la storia di Vanna Marchi, non questa; altri personaggi, altro stile, Anche con i verbi bisogna andarci piano. Il massimo sarebbe omettere anche i sostantivi, ma forse chiedo troppo a lei e a me.
Ci sentiamo su Rai Isoradio?
Ci sentiamo questa mattina su Rai Isoradio? Mi intervistano su un articolo che avevo scritto sui SUV. L’automobile è un oggetto di metallo e plastica che serve ad arrivare rapidi, comodi e sicuri a destinazione.Oggetto-strumento al pari di una forchetta, di una pinza o di una ramazza, per i quali l’utilizzatore chiede funzionalità, affidabilità e talvolta una estetica accettabile. Così nell'acquistare una vettura si chiede, compatibilmente al proprio reddito, che soddisfi specifici requisiti di potenza, sicurezza, economia e affidabilità. Tuttavia a differenza di una ramazza l’automobile è oltre che strumento anche simbolo, per l’idea che l’oggetto rappresenta ed evoca del suo possessore. Già Schopenhauer sentenziava : “Il mondo è mia rappresentazione” e che l’automobile sia uno status symbol non è una novità. Che cosa l’automobile rappresenti simbolicamente lo possiamo cogliere osservando il “plus” che alcune vetture offrono oltre il realistico utilizzo che di fatto svolgono. Ci riferiamo a quegli oggetti bizzarri, grandi, ibridi, un po’ gipponi un po’ berline di lusso, che imperversano in città. Li chiamano SUV (Sport Utility Vehicles), sono caratterizzati da cilindrate e dimensioni superiori agli autoveicoli normali. Capaci, grazie alle sovradimensionate quattro ruote motrici, di attraversare agilmente la Mauritania vengono invece utilizzati dalle mamme per accompagnare i bambini a scuola per poi recarsi dalla parrucchiera. Talvolta però, nel fine settimana, riescono ad utilizzare quasi un quindici per cento della loro cilindrata e potenza complessiva, quando il papà porta la famigliola sulle prealpi bergamasche; l’ottantacinque per cento mai utilizzato non "serve" a nulla, se non ad esprimere significati.I significati espressi attraverso le funzioni simboliche dell'oggetto SUV sono sintattiche, pragmatiche e semantiche: funzione sintattica, ovvero la relazione ad altri simboli, nella fattispecie delle altre autovetture e guidatori: “Io sono più grande, più importante di te”.Funzione pragmatica: “Spostati rapido altrimento io ti schiaccio.”Funzione semantica, ovvero la relazione simbolica diretta al significato che esprime l’oggetto SUV, che grida al mondo per il suo possessore: “Io non sono più povero, ma ricco”; funzione simbolica comprensibile, visto che è maleducato, umiliante e osceno andare in giro col portafoglio aperto per far vedere quante banconote ci sono dentro, che il SUV si presti a surrogare il gesto.In Gran Bretagna l’hanno compreso da tempo, così l’ultima moda dei VIP londinesi è di spostarsi in bicicletta.Si sa loro sono eccentrici, noi pittoreschi.
Vieni via con me?
Nell’ultimo numero di Tracce, rivista internazionale di Comunione e Liberazione, Anna Leonardi scrive l’articolo: “Perché io non vengo via con te” sul programma di Fazio e Saviano.L’Autrice evita di entrare nel merito dei contenuti del programma, li passa in rassegna in punta di penna: ricorda l’ossimoro di Emma Bonino che parla di aborto come di diritto alla vita e di Fini e Bersani che si con-fondono, poi espone il suo teorema, che sintetizziamo come segue: nel format i personaggi protagonisti si presentano addobbati di purezza, poi nessuno escluso, spinti da interesse privato (“delatori”) sferzano colpi a una società ritenuta ingiusta. A questo punto il giudizio di valore, la sentenza, dell'Autrice; che, anche qui, esponiamo in sintesi: un vuoto che da l’illusione del pieno, il niente che da la sensazione del congruo; mistificazione dove la percezione del reale bisogno è condotta inevitabilmente a perdersi, ad evaporare.Che non si deleghi la propria emancipazione ad un format televisivo come giustamente invita, tra le righe, l'Autrice è più che condivisibile, anzi già che c’è dia nel merito un giudizio culturale sulla televisione del Presidente del Consiglio che lei sostiene. Della Bonino di Bersani e anche di Fini che ognuno scriva, motivando, il proprio giudizio.La tesi di fondo dell’articolo, quella vera al di là del rumore, rimane irrisolta: in base a quale postulato si ritiene che quando si incontrano un paio di amici della Leonardi, indipendentemente da ciò che pensano, dicano o facciano i due ciellini, si presuma accada un avvenimento salvifico, dove la verità assoluta si manifesta in gloria; dove si svela il compimento supremo del destino e la realizzazione umana definitiva? Invece quando milioni di persone partecipano ad un momento condiviso, però in ambito diverso da quello della Leonardi, sono giudicati, indipendentemente da ciò che pensano, dicono e fanno, degli illusi, dei babbei ingannati da ciarlatani?Forse sarebbe il caso che la direzione di Tracce sia più prudente nel mettere in piazza un articolo così debole, più che offensivo comico nel suo puerile integralismo.
Kamasutra, essere e linguaggio
Il linguaggio, quello delle parole, è congruo a ciò che realmente siamo? Quanto ci consente d’esprimere della coscienza, dell’essere uomini? Per far la lista della spesa e per risolvere i rebus della Settimana enigmistica il linguaggio delle parole è indubbiamente adeguato, ma per definire e rivelare la vita è strumento proporzionato? Va bene così? E’ abbastanza così? E’ invece necessario che il linguaggio per rivelarsi congruo, in specifici territori, rimandi oltre: evochi, conduca ad immaginare, simboleggi?E’ patologico o umano guardare un rebus sulla Settimana enigmistica attardandosi ad osservarlo, indifferenti all’abbinamento delle lettere, per il gusto di vedere appaiati un gallo, un diamante e un sole che tramonta per apprezzarli in silenzio, senza sapere il perché? Esistono parole che dopo averle enunciate possano porre un punto metafisico, invece che d’interpunzione, perché l’obiettivo ultimo è raggiunto?Evidentemente il linguaggio delle parole è più di un susseguirsi di suoni o segni con significato condiviso che ci consentono di comunicare e che, inseriti binari in sequenza corretta, ci fanno girare il PC; tuttavia anche dove la consonanza interiore di significato, espressa dalla parole, appare soddisfacente e la logica coerente, si avverte, nei territori dell’essere, che manca ancora un qualcosa, si sente una discrepanza. Nel profondo i conti non tornano, qualcosa d’indicibile, d’ineffabile, rimane inespresso dalle parole e il pensiero, forse ammalato di trascendenza, rimane insoddisfatto. Nella ricerca della parola mancante, del capitolo risolutivo, s’insiste nel ripetere ridicendo e riascoltando, riscrivendo e rileggendo. Il linguaggio delle parole sembra non bastare, con la sua struttura, le sue leggi, la sua combinatoria di elementi fonici e segni grafici stenta a comunicare appieno l’essere, non riesce a svelarlo. Il linguaggio parola con le sue premesse, ipotesi, tesi, verifiche; nel comunicare la notizia, la sentenza, in tutte le opzioni formali e anche materiali, fisiche, che utilizza e nelle quali si esprime sembra arrancare: digitare la parola sulla macchina da scrivere invece che sulla tastiera del computer, come si vantavano con una punta di feticismo i giornalisti alla fine del secolo passato, o scrivere con la penna sul foglio, o dire con voce e faccia dal vivo, o voce e faccia in video, leggere in silenzio, leggere a voce alta. Il linguaggio nei suoi contenuti, nel metodo e merito, nelle opzioni corporee dell’atto non risolve la faccenda, qualcosa manca ancora; nella coscienza il pensiero sta al linguaggio un po’ come Eros sta al “fare all’amore”, non basta dire e neppure fare: col sentimento, senza sentimento, con le mani, senza mani, sopra o sotto, a testa in giù o sbieca, mentre, indifferente ai nostri sentimenti e virtuosismi, l’altro rimane, in qualche modo, un po’ inaccessibile, immagine riflessa, oltre, mancante.Il linguaggio delle parole seppur potente risulta, in certe sfere, incompleto, inadeguato, parziale, forse mentitore, così il pensiero rimane in suspense, insoddisfatto, inquieto. Anche se i grandi della scrittura hanno lottato per guarire l’umana primigenia patologia della distanza delle parole dal pensiero, non possiamo escludere che la piena sincerità, la corrispondenza assoluta pensiero-linguaggio, nell’essere coscienza, la si potrà raggiungere solo con la morte personale, là dove il linguaggio cessa. Nel frattempo, intessuti e costituiti di linguaggio, la domanda arriva da sola: ciò che ci raccontiamo coincide con quello che realmente siamo?