Erich Fromm nel suo saggio “Avere o essere?” vede la paura della morte procurata dal possesso delle cose, del nostro corpo, del nostro io. Più molliamo l’osso migrando dal paradigma dell’avere a quello dell’essere e meno angosciante sarà la morte. Utile osservare che per Fromm le stesse indicazioni, pari, pari, valgono anche per il vivere bene ed è proprio così, più ci attacchiamo alle cose e più ci impantaniamo in un’angoscia di vita, chiusi a riccio nell’intento di trattenere e incrementare illimitatamente ciò che possediamo, con la crescente paura di perderlo.
Ci sarebbe, però, da considerare -Fromm non sembra farne cenno- che il morire non solo ci costringe ad abbandonare tutto ciò che abbiamo, ma anche tutto ciò che siamo, a meno che sussista un sempiterno Essere con la maiuscola, alla Parmenide, Severino e ontologie affini. La viva natura, linea che contiene il segmento della nostra esistenza personale, è indizio del sussitere di questo Essere che ci precede, esprime, succede.
Permane un ultimo problema, anzi due: ma ‘sto sempiterno Essere sa di esserlo o siamo noi mortali che dobbiamo informarlo? E se così fosse chi sarà mai quella canaglia di demiurgo che ha architettato la cosa?