Parmenide affermava che «L'essere è, e non può non essere; il non-essere non è, e non può essere» e Antoine-Laurent de Lavoisier postulava: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».
Evidente, basta di tanto in tanto osservare il funzionamento naturale per averne conferma. Eppure non è questo il modello che si è affermato in Occidente, dove il più delle volte si interpreta l’esistere, personale e del mondo, strutturandolo in inizio, svolgimento e fine, al pari degli scolari che svolgono un tema in classe. Un inizio che si attiverebbe da un presupposto niente, come il coniglio sbuca dal cappello del prestigiatore; un circoscritto progredire (più o meno interessante); una fine dove ogni movimento cessa di botto per tornare nel nulla dal quale era iniziato[1].
Ma chi è stato l’autore di questa fantasia che ha avuto un così universale consenso e duraturo credito?
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1 Sergio Leone non interpretava così la realtà. I suoi western vedevano il protagonista arrivare col suo cavallo da una sorta di eterno increato dove operava da sempre. Svolte le sue imprese si allontanava galoppando, e pur non vedendolo più tutti sapevano che la sua storia continuava.