Lo storico Yuval Noah Harari interpreta cruciale la remota rivoluzione agricola, dove i sapiens da raccoglitori e cacciatori nomadi avevano iniziato a coltivare e allevare formando comunità stanziali con un numero sempre più alto e coeso d’individui, non solo a seguito di maggiori disponibilità di cibo ma grazie all’immaginare astrazioni condivise. Ogni evento ne è impregnato:
«I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (Nietzsche); «I fatti sono carichi di teoria» (Popper); «Così come un popolo sceglie i propri governanti, la teoria conferisce autorità all’osservazione, affinché governi la giustificazione delle teorie» (P. Kosso).
La consapevolezza che stiamo insieme e vediamo il mondo poggiati su siffatti costrutti ci consente di emanciparci da narrazioni fantastiche così da non equivocarle per verità assolute (confessioni religiose, ideologie e dintorni), nondimeno implica problematicità per nulla secondarie: se tutto è narrazione allora non è vero niente. Un’accoppiata di nichilismo e relativismo spinti che annullerebbe qualsiasi estetica ed etica: cose e uomini sì differenti all’interno di peculiari costrutti narrativi estetici ed etici condivisi, ma in sé enti né belli né brutti, né giusti né sbagliati, né buoni né cattivi.
Ammesso e pure concesso che ci muoviamo poggiando su strutture immaginarie acquisite che, via, via, implementiamo, rimane da indagare se
un’estetica così:
per mera convezione è più brutta di una cosà:
e se una situazione così:
sia eticamente raccapricciante non in sé, ma perché ci siamo raccontati che lo sia. Oppure ci sia una sorta di substrato oggettivo e di logos normativo che ci precede. Sconveniente esaltarlo, ma anche rimuoverlo.