Nel mio dire di vittime e del dolore dei loro cari, di vendetta che rende un po’ simile al carnefice, d’ipotesi e percorsi di perdono, di drammi che pietrificano e di quelli che stimolano, di resilienze e di depressioni paralizzanti, della consolazione della natura che indifferente al male continua gloriosa il suo procedere, il saggio amico mi aveva ammonito:
«Facile filosofare quando le tragedie succedono agli altri».
Territori dove è, dunque, lecito dire se direttamente e personalmente coinvolti in medesimo grado: ti è morto il padre di tumore al pancreas? Puoi dire la tua all’amico che sta vivendo lo stesso dramma, ma esautorato da qualsiasi pensare, dire, fare, interpretare, riguardo la madre che ha avuto il figlio assassinato. Limite invalicabile ad eccezione della silente vicinanza. Eppure in questa sacralizzazione della vittima elevata a intangibile onnipotente sovrano separato, isolato, autistico, mai imputabile al pari degli incapaci di intendere e volere, c’è qualcosa che non va. Difficile trovare un modo di sano coinvolgimento se non quello mediato dalle generali e universali misure e norme dell'umano diritto costituite, istituite, e socialmente condivise.