E’ sempre accaduto che si guardi al passato, c’è chi ha raccontato storie di avi, o scritto autobiografie per comprendere chi era e nei momenti difficili è fuggito nostalgicamente indietro alla ricerca di valori dimenticati, per emanciparsi da un presente avvertito sterile e appartenere ad un passato degno, "monumentale" tanto forte e significativo da essere, nel qui e ora, più presente del presente stesso.In questi ultimi giorni il rapporto col passato ha preso invece connotazioni singolari, è in atto un processo di banalizzazione della memoria personale e collettiva che imperversa dai media al quotidiano vivere: “I migliori anni”, dove nei palinsesti televisivi o nella pubblicità di una birra, ma anche nella politica e nell’arte, si va verso un “prima” per rimembrare non tanto cultura, ma climi sociali, modi di vivere e svaghi del recente passato, che si idealizzano e nei quali emozionalmente ci si rifugia. Così la memoria personale e collettiva è ridotta ad un “Noi che ci mancavano sempre quattro figurine per finire l'album Panini”. La bocca parla della pienezza del cuore e se, nel presente, pienezza non c’è si racconta quel che si può e merita di ricordare, succede a sessantenni, a cinquantenni, ma anche a trentenni e non possiamo escludere che, quando si ricorda e racconta il niente, la vecchiaia sia definitivamente arrivata.