Il linguaggio, quello delle parole, è congruo a ciò che realmente siamo? Quanto ci consente d’esprimere della coscienza, dell’essere uomini? Per far la lista della spesa e per risolvere i rebus della Settimana enigmistica il linguaggio delle parole è indubbiamente adeguato, ma per definire e rivelare la vita è strumento proporzionato? Va bene così? E’ abbastanza così? E’ invece necessario che il linguaggio per rivelarsi congruo, in specifici territori, rimandi oltre: evochi, conduca ad immaginare, simboleggi?E’ patologico o umano guardare un rebus sulla Settimana enigmistica attardandosi ad osservarlo, indifferenti all’abbinamento delle lettere, per il gusto di vedere appaiati un gallo, un diamante e un sole che tramonta per apprezzarli in silenzio, senza sapere il perché? Esistono parole che dopo averle enunciate possano porre un punto metafisico, invece che d’interpunzione, perché l’obiettivo ultimo è raggiunto?Evidentemente il linguaggio delle parole è più di un susseguirsi di suoni o segni con significato condiviso che ci consentono di comunicare e che, inseriti binari in sequenza corretta, ci fanno girare il PC; tuttavia anche dove la consonanza interiore di significato, espressa dalla parole, appare soddisfacente e la logica coerente, si avverte, nei territori dell’essere, che manca ancora un qualcosa, si sente una discrepanza. Nel profondo i conti non tornano, qualcosa d’indicibile, d’ineffabile, rimane inespresso dalle parole e il pensiero, forse ammalato di trascendenza, rimane insoddisfatto. Nella ricerca della parola mancante, del capitolo risolutivo, s’insiste nel ripetere ridicendo e riascoltando, riscrivendo e rileggendo. Il linguaggio delle parole sembra non bastare, con la sua struttura, le sue leggi, la sua combinatoria di elementi fonici e segni grafici stenta a comunicare appieno l’essere, non riesce a svelarlo. Il linguaggio parola con le sue premesse, ipotesi, tesi, verifiche; nel comunicare la notizia, la sentenza, in tutte le opzioni formali e anche materiali, fisiche, che utilizza e nelle quali si esprime sembra arrancare: digitare la parola sulla macchina da scrivere invece che sulla tastiera del computer, come si vantavano con una punta di feticismo i giornalisti alla fine del secolo passato, o scrivere con la penna sul foglio, o dire con voce e faccia dal vivo, o voce e faccia in video, leggere in silenzio, leggere a voce alta. Il linguaggio nei suoi contenuti, nel metodo e merito, nelle opzioni corporee dell’atto non risolve la faccenda, qualcosa manca ancora; nella coscienza il pensiero sta al linguaggio un po’ come Eros sta al “fare all’amore”, non basta dire e neppure fare: col sentimento, senza sentimento, con le mani, senza mani, sopra o sotto, a testa in giù o sbieca, mentre, indifferente ai nostri sentimenti e virtuosismi, l’altro rimane, in qualche modo, un po’ inaccessibile, immagine riflessa, oltre, mancante.Il linguaggio delle parole seppur potente risulta, in certe sfere, incompleto, inadeguato, parziale, forse mentitore, così il pensiero rimane in suspense, insoddisfatto, inquieto. Anche se i grandi della scrittura hanno lottato per guarire l’umana primigenia patologia della distanza delle parole dal pensiero, non possiamo escludere che la piena sincerità, la corrispondenza assoluta pensiero-linguaggio, nell’essere coscienza, la si potrà raggiungere solo con la morte personale, là dove il linguaggio cessa. Nel frattempo, intessuti e costituiti di linguaggio, la domanda arriva da sola: ciò che ci raccontiamo coincide con quello che realmente siamo?