Arriva un tempo dove si avverte la necessità dell’autobiografia, anche se non intendiamo raccontarla ad altri e neppure scriverla essa vuole, per forza propria quasi fosse un’entità autonoma, che sia perlomeno pensata e intimamente narrata; la nostra storia ci chiama, fa affiorare ricordi dimenticati, attiva pensieri ed elaborazioni. Il contenuto e lo stile del processo è misterioso, non assomiglia all’esposizione di un curriculum vitae, ad un mero elenco cronologico di fatti accaduti in tempi e luoghi noti, com’è d’uso invece per le biografie: “nasce il; a; finiti gli studi; compie viaggi; si sposa; a quel punto compie azioni, poi muore il; a”, in una “successione” concatenata d’avvenimenti che, se piacciono al biografo, vengono definiti -per l'appunto- “successi”; poi alla fine l’autore scrive, se non vivente, l’indirizzo dove giacciono, oppure riposano, le spoglie mortali del personaggio. L’autore segue il modello preimpostato e riempie i campi.Questo approccio scialbo, trito e ritrito ci permette di cogliere il personaggio nel contesto storico e di conoscerne la produzione, ma il carattere unico, il cuore della sua umanità, insomma “Lui” non emergerà; basta fare un giro su Google e digitare “autobiografie” per averne conferma: la biografia di Diego Abatantuono ci apparirà, nella forma testuale e nei contenuti, più interessante di quella di Nietzsche e non possiamo escludere che alcuni santi rabbrividirebbero nel dare un’occhiata all’agiografia che li celebra. Se un autore scrivesse la nostra biografia in questa forma è plausibile che la avvertiremmo estranea, limitata, un po’ disonesta. Perché non ci rispecchiamo? Dov’è il tradimento? Dove le omissioni se la biografia appare tempestiva e congrua come un verbale steso dai Carabinieri dopo sopralluogo? Cos’è questo di più che sentiamo e pensiamo d’essere? L’autoraccontarsi la propria esistenza, invece di farcela raccontare da altri, è forse il tentativo di incontrare quel quid -dentro e oltre i luoghi, i tempi e le azioni- che ci caratterizza; quel qualCosa senza uguali, in altri termini è cercar risposta alla domanda fondamentale: io chi sono?Non di rado si cerca risposta in quello che gli altri pensano e dicono di noi; quante volte si dice che l’iniziativa, il pezzo, l’opinione, “funziona”; cosa significa funziona? Significa che trova consenso. Se questo è l’unico criterio di giudizio saremo portati a tradire il carattere, la vocazione, per conformarci ed omologarci. Rainer Maria Rilke in “Lettere a un giovane poeta” da al riguardo indicazioni inequivocabili, artistiche ed esistenziali, agli antipodi dalla ricerca di consenso: "… morirebbe, se le fosse negato di scrivere? Questo soprattutto: si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta."Possiamo tuttavia osservare, che quando la personale biografia viene pensata ma non detta e neppure scritta lascia un retrogusto rancido; si percepisce qualcosa di noioso e asfittico: un io un po’ ipertrofico, che di tanto in tanto borbotta, in atteggiamento un po’ masturbatorio. Lo strumento dello scrivere, del portare fuori, ci emancipa dal rancido perché favorisce una sana distanza da noi stessi, il percorso diventa ancor più proficuo se dopo averla scritta, leggiamo l’autobiografia a qualcuno, magari a molti.Si può iniziare con un diario, compito impegnativo perché un diario non è una cronaca e neppure un’agenda, oppure dal presente per andare a ritroso, o anche dall’inizio. Tutto sommato in questi territori il prima e il dopo sono relativi: tutto accade insieme, sovrapposto, mischiato. Basta guardare in faccia un vecchio, se non si è mascherato con un lifting, per constatare fisicamente l’istantaneità del continuo-infinito-presente: tutta la sua storia, il suo cuore, il pensiero irripetibile, insomma il carattere è scritto in quel volto, magari in forme enigmatiche, con-fuse ma è lì. Forse la comprensione non è un processo, ma un evento istantaneo.