Elenchi e ricapitolazione
Ridire il già detto, il ripetere, è mal tollerato, indizio inequivocabile di senilità o infantilismo. Si ha fretta; le parole devono essere rapide, scandite, dirette e funzionali. Il linguaggio dei vecchi e dei bambini intralcia il percorso, infastidisce, complica, fa perdere tempo, procrastina il raggiungimento dell’obiettivo.Vietate le ripetizioni di vecchi logori e di bambini acerbi perché fanno perdere il passo; obbligatorio invece il gergo pragmatico che non ripete e se proprio deve farlo ribadisce, riafferma, ripresenta, riproduce (riedizione, rifacimento, remake), elenca e ripropone.Perché la ripetizione è rifiutata e la duplicazione invece accettata? Perché si preferisce elencare invece che ricapitolare? E ancora, qual’è il traguardo e perché occorre raggiungerlo rapidamente? Non è chiaro. Theodor W. Adorno, in Minima Moralia / Meditazioni della vita offesa, osserva:“La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è già diventata un'ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose.”Il pragmatismo del linguaggio, quello che non concede ingresso a neonati che lallano e ai vecchi che raccontano sempre la stessa storia, non permette il piacere, squisitamente umano, che le cose riaccadano. Ripetizione invece accolta nella pedagogia, nella psicoanalisi, nella filosofia illuminata, celebrata nell’arte da poeti, attori e cantanti. Lì c’è ancora spazio per il ripetere cose nuove anche se uguali, perché frequenze, ritmi, sequenze circolari. Così anche nel culto laico o confessionale: giorni della memoria, litanie, mantra; riti di appartenenza dove le parole echeggiano in risonanza, si riconfermano e si ricapitolano.Forse è proprio il tormentone del cercare compulsivamente epidermiche novità che annoia, rallenta il percorso e allontana la meta e i logori e gli acerbi non sono i vecchi e i bambini.
Va dove ti porta il cuore?
Quelli che nell’esistenza sono andati dove li ha portati il cuore, sono poi arrivati da qualche parte? Dove? Come stanno? Quanti i realizzati dall’esperienza e quanti i disastrati? Quanti i graziati e quanti i disgraziati? Intendiamo un “dove ti porta il cuore” radicale, quello di Dante e Beatrice, di Romeo e Giulietta, di Renzo e Lucia; via del cuore alla Hegel: l’obliarsi in una alterità per realizzarsi attraverso la rinuncia a sé stessi; perdersi completamente nell’altro per poi ritrovarsi. Narrazione romantica raccontata da sempre, che ancora oggi, in differenti versioni, genera consensi e attua successo di pubblico; storia che funziona e inchioda al romanzo o alla fiction i più degli italiani: amore assoluto per quel l’uomo, per quella donna, per quella madonna, per quel guru, l’amore di Dio e per Dio, amore per la patria fino al sacrificio estremo di sé, amore per l’ideale con probabile innamoramento anche del leader carismatico che lo incarna e rappresenta. Donne e uomini che amano, eroi che amano, santi che amano, mistici che amano, messia che amano e sono amati, patrioti che amano. Donne, uomini, eroi, santi, mistici, messia e patrioti che poco pensano e molto soffrono perché molto amano. Il romanzo “I dolori del giovane Werther” del primo Goethe originò un fenomeno chiamato "febbre di Werther": i giovani lettori si identificarono a tal punto col protagonista da imitarlo fino al suicidio per un amore impossibile. “Febbre” è termine congruo, in effetti se si rilegge il romanzo con un minimo di raziocinio sembra di esaminare una cartella clinica in un centro d’igiene mentale, tuttavia accade che quando donne e uomini, a seguito di un passato sentimentale andato storto, o disillusi da ideali scelgano finalmente di seguire il proprio percorso esistenziale unendo pensiero e sentimento, vivendo proficue relazioni di partnership, un movimento d’opinione insorga scandalizzato per spronarli a mettersi in gioco ancora, a riprovare ancora, a buttare via la testa per andare là dove porta il cuore, in quei territori dove il linguaggio e la ragione collassano.Un invito alla follia discutibile.
Scostamento
La distanza che il governo in carica esprime rispetto alle reali urgenze di molti italiani è macroscopica. Quando il portavoce di turno commenta la disoccupazione crescente si percepisce rapidi, dal tono e dalla semantica che utilizza, la sua estraneità e indifferenza per la tragica realtà di chi non ha più stipendio. Al portavoce poco importa d’essere empatico con persone che non conosce, lui vola alto, parla di macroeconomia, commenta con baldanza i dati numerici argomentando con metafore calcistiche, mentre coglie l’occasione per far pubblicità al suo operato e propaganda al partito di appartenenza. Di fatto non sa di cosa stia parlando perché la miseria non sai cos’è se non l’hai personalmente e concretamente provata, se non l’hai subita senza volerla.Tuttavia siccome la classe dirigente è scelta dalla maggioranza degli italiani è ragionevole chiedersi se lo scostamento dal reale sia, in qualche modo e a differenti livelli, presente anche nel tessuto sociale e i politici che ci rappresentano, opposizione inclusa, ne siano semplicemente l’espressione.Lo scostamento tra reale e ideale è ben noto in filosofia, lo scozzese David Hume, con approccio grossolano ma efficace, semplifica il problema distinguendo le impressioni dalle idee: quando abbiamo davanti agli occhi un oggetto la sua percezione è viva e pregnante, tale esperienza il filosofo la definisce impressione;se però ci allontaniamo dall’oggetto e non lo vediamo più, l’impressione si diluisce in ricordo, tale esperienza Hume la definisce idea. Se trasponiamo a livello collettivo, quanto enunciato dal filosofo, possiamo osservare che davanti al medesimo oggetto vediamo tutti una cosa più o meno simile, ma appena ci allontaniamo entriamo in un “nostro modo di vedere le cose” in un sistema di concezioni e credenze, di ideologie e fedi.Fino a che punto siamo capaci di ridurre il personale scostamento dal reale perché, ad esempio, capaci di uccidere con le nostre mani l’animale che mangiamo, invece di acquistarlo impacchettato al supermercato? Non possiamo escludere che, vivendo la faccenda in presa diretta, i vegetariani aumenterebbero. Avvicinandoci alla realtà per quella che è senza pregiudizi, filtri, mediazioni e interpretazioni, possiamo forse incontrare la possibilità di vivere insieme in modo più condiviso, pratico e funzionante, in modo migliore. Davvero facile, roba da insegnare all’asilo se lì l’urgenza non fosse quella di sfoggiare simboli celtici e crocifissi.
Status symbol
L’automobile è un oggetto di metallo e plastica che serve ad arrivare rapidi, comodi e sicuri a destinazione. Oggetto-strumento al pari di una forchetta, di una pinza o di una ramazza, per i quali l’utilizzatore chiede funzionalità, affidabilità e talvolta una estetica accettabile. Così nell'acquistare una vettura si chiede, compatibilmente al proprio reddito, che soddisfi specifici requisiti di potenza, sicurezza, economia e affidabilità. Tuttavia, a differenza di una ramazza, l’automobile è oltre che strumento anche simbolo per l’idea che l’oggetto rappresenta ed evoca del suo possessore. Già Schopenhauer sentenziava : “Il mondo è mia rappresentazione” e che l’automobile sia uno status symbol non è una novità.
Che cosa l’automobile rappresenti simbolicamente lo possiamo cogliere osservando il plus che alcune vetture offrono oltre al realistico utilizzo che di fatto svolgono. Ci riferiamo a quegli oggetti bizzarri, grandi, ibridi, un po’ gipponi un po’ berline di lusso, che imperversano in città. Li chiamano SUV (Sport Utility Vehicles) e sono caratterizzati da cilindrate e dimensioni superiori agli autoveicoli normali. Capaci grazie alle sovradimensionate quattro ruote motrici di attraversare agilmente la Mauritania, vengono invece utilizzati dalle mamme per accompagnare i bambini a scuola per poi recarsi dalla parrucchiera. Talvolta però, nel fine settimana, riescono ad utilizzare quasi un quindici per cento della loro cilindrata e potenza complessiva, quando il papà porta la famigliola sulle prealpi bergamasche; l’ottantacinque per cento mai utilizzato non "serve" a nulla, se non ad esprimere significati.
I significati espressi attraverso le funzioni simboliche dell'oggetto SUV sono sintattiche, pragmatiche e semantiche: funzione sintattica, ovvero la relazione ad altri simboli, nella fattispecie delle altre autovetture e guidatori: “Io sono più grande, più importante di te”. Funzione pragmatica: “Spostati rapido altrimento io ti schiaccio.” Funzione semantica, ovvero la relazione simbolica diretta al significato che esprime l’oggetto SUV, che grida al mondo per il suo possessore: “Io non sono più povero, ma ricco”, funzione simbolica comprensibile, visto che è maleducato, umiliante e osceno andare in giro col portafoglio aperto per far vedere quante banconote ci sono dentro che il SUV si presti a surrogare il gesto. In Gran Bretagna l’hanno compreso da tempo, così l’ultima moda dei VIP londinesi è di spostarsi in bicicletta. Si sa loro sono eccentrici, noi pittoreschi.
Mutazione antropologica*
Una conoscente mi riferisce: “Mia cognato l’altra settimana si è buttato sotto il treno”. Poi aggiunge soddisfatta: “L’hanno detto alla televisione”. Anche per loro, famiglia anonima di provincia, è arrivato il momento di notorietà: dieci secondi nel TG locale dove hanno pronunciato il loro cognome. E’ stata dura ma adesso esistono anche loro.*"Mutazione antopologica" formulazione originale di Pasolini. Fenomeno omologante e tragico che consiste nella distruzione, attraverso i media e la televisione, di ogni carattere spirituale e dignità umana dell’individuo.
Ancora... Ancora... Ancora!
Samuel Beckett nel monologo “ Rockaby” (nella versione italiana “Dondolo”) ha messo in scena una donna adagiata su una sedia a dondolo. E’ vestita di nero ed è lì lì per schiattare, ma non si arrende. Una voce fuori campo narra una storia, la sua storia e la sedia dondola. Quando la voce cessa, la sedia si ferma e la luce si abbassa quasi per spegnersi, a quel punto la donna implora: "Ancora"; la luce ritorna e la voce col dondolio riprendono. Così per più volte, poi la voce fuori campo tace. Il dondolio cessa. Buio.I bambini vogliono che il gioco continui e che la fiaba sia ripetuta, gli amanti che l’amplesso perduri e sia replicato e gli imprenditori sono spinti da impulso irrefrenabile a continuare sempre oltre gli obiettivi prefissati per superarsi in eterno. Tipologie di “volere ancora” socialmente accettate e talvolta ammirate.Se invece si eccede nel “volere ancora”, come gli antichi romani che si ficcavano il dito in bocca per svuotarsi lo stomaco e prolungare il piacere della tavola o chi, contemporaneo, fa fuori il patrimonio di famiglia al casinò, oppure è tossicodipendente, l’ostinazione a ripetere è giudicata in tali casi malattia, o peccato e talvolta reato.L’ ostinazione al “volere ancora” assoluto, del monologo beckettiano è la più radicata e diffusa, tuttavia la meno osservata e giudicata; indipendentemente dall’età e dalle condizioni fisiche usualmente si accetta e sottintende che è giusto, lecito e anche doveroso far di tutto per continuare, sempre e comunque, a vivere.Raro che si giudichi virtuoso l’ uomo che “venuto il momento” si apparti sotto ad un cespuglio e muoia rapido senza lagnarsi. Possibilità concessa ai gatti selvatici, per quelli domestici si chiama invece il veterinario per procrastinare ad oltranza l’epilogo. Non sappiamo se il felino, seppur domestico, desideri per davvero vivere ancora, in quanto non possiamo affermare, ma neppure escludere che il gatto lodi, indifferente al nostro amore per lui, un suo Signore per la sua sorella morte corporale (1). Non conosciamo, tuttavia riteniamo che “venuto il momento” non è faccenda che compete al destino, ma nostra. Così, pur consapevoli di perdere la partita, non ci si arrende e si fa di tutto, e anche di più, per tirare avanti e quando la partita è ormai persa si insiste ancora, pur di eternalizzare (2) in qualche maniera la persona. Ancora... Ancora... Ancora! Forse i gatti selvatici ridono di noi e dei nostri Dei e non lo sappiamo.(1) Francesco d’Assisi, Cantico delle Creature "Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale"(2) "La storia del cristianesimo è la necessità del fatto che una fede diventa essa stessa tanto vile e volgare quanto sono le esigenze che con essa si devono soddisfare"Nietzsche “la volontà di potenza” frammento 356
Noi che...
E’ sempre accaduto che si guardi al passato, c’è chi ha raccontato storie di avi, o scritto autobiografie per comprendere chi era e nei momenti difficili è fuggito nostalgicamente indietro alla ricerca di valori dimenticati, per emanciparsi da un presente avvertito sterile e appartenere ad un passato degno, "monumentale" tanto forte e significativo da essere, nel qui e ora, più presente del presente stesso.In questi ultimi giorni il rapporto col passato ha preso invece connotazioni singolari, è in atto un processo di banalizzazione della memoria personale e collettiva che imperversa dai media al quotidiano vivere: “I migliori anni”, dove nei palinsesti televisivi o nella pubblicità di una birra, ma anche nella politica e nell’arte, si va verso un “prima” per rimembrare non tanto cultura, ma climi sociali, modi di vivere e svaghi del recente passato, che si idealizzano e nei quali emozionalmente ci si rifugia. Così la memoria personale e collettiva è ridotta ad un “Noi che ci mancavano sempre quattro figurine per finire l'album Panini”. La bocca parla della pienezza del cuore e se, nel presente, pienezza non c’è si racconta quel che si può e merita di ricordare, succede a sessantenni, a cinquantenni, ma anche a trentenni e non possiamo escludere che, quando si ricorda e racconta il niente, la vecchiaia sia definitivamente arrivata.
Professione mariologo
Il tassista che con le sue sgommate riesce a recuperare il ritardo e a non farci perdere l’aereo perché ci siamo addormentati e l’idraulico che ci spurga l’ingorgo fognario nottetempo, salvando l’inquilino del piano di sotto dai liquami che percolano dal soffitto, sono dei professionisti perché capaci ed esperti nella loro specifica materia, non c’è dubbio. Anche senza mani si può essere professionisti perché competenti in matematica, geografia o ingegneria; figure che, chi di mano, chi di testa, ci permettono di vivere meglio.E il teologo, lo psicoterapeuta e il filosofo sono dei professionisti? E gli artisti? Riteniamo di si; non solo perché esistono le corrispondenti scuole e discipline, ma perché figure professionali che operano in territori complessi, dove sono necessarie competenze specifiche; ma quando queste figure “professionali” mettono il naso nella dimensioni del vivere e del morire, nel significato stesso dell’essere uomini in questo universo, fino a che punto c’è ancora spazio per una scientificità specialistica e professionale?Possiamo osservare che gli uomini di pensiero competenti che si addentrano in queste faccende limite, ad un certo punto, perlomeno i più svegli, cominciano ad avvertire le personali competenze e qualifiche, seppur prestigiose, incongrue al percorso intrapreso, così prendono un po’ di distanza dalla personale professionalità per servirsene come mero strumento, come bussola. Il timone lo prende in mano l’uomo, la sua coscienza, la sua consapevolezza, la sua esperienza per spingersi oltre, là dove la parola arranca e il pensiero vacilla.Altri loro colleghi invece, perlomeno i mediocri, nel visitare le tematiche ultime dell’essere e del vivere, preferiscono percepirsi professionisti a oltranza, gli piace così tanto ritenersi “addetti ai lavori” in cose tanto importanti, da guardare pregiudizialmente, dall’alto in basso, quelli che considerano incompetenti in materia. In questa linea di separazione, da loro posta e difesa, oltre a inquinare direttamente il campo del loro spazio di lavoro che è la vita stessa, autorinunciano alla qualifica che gli spetterebbe per il compito che perseguono, quella di “uomini che cercano”. Preferiscono essere teologi: l’entomologo studia gli scarafaggi e loro Dio. A qualcuno gli scappa di peggio; ad un convegno un monsignore rubicondo aveva una targa davanti al suo immenso ventre con scritto sopra: mariologo. Scena comica, un po’ patetica, ma lui tirava dritto coi sui discorsi, convinto dell’utilità universale della sua specializzazione. Come dargli torto? Lui la sapeva lunga: era un esperto della Madonna. Senza pensiero che sia vita ed esperienza rimangono solo competenze mai originali, anche se in apparenza argute, perché elaborate attraverso la manipolazione di nozioni apprese, come quando mescolando colori differenti creiamo migliaia di altri colori, che possono essere riportati ai sette colori principali esistenti: sempre quelli, nient’altro che quelli.Poi queste rielaborazioni le chiamano idee originali (1), genio e anche intuizione, invece è erudizione e l’erudizione è memoria, assemblaggio di fotocopie indubbiamente utile, ma non indispensabile. La cultura è altra cosa: pensiero che è vita in presa diretta. E’ facile riconoscerla, quando si addentra in territori limite parla poco e sottovoce, poi fa silenzio; è comprensibile quasi a tutti, non annoia; parla sottovoce ma ti entra nel corpo, di solito nella pancia e fa ricircolare il sangue nelle vene.Tuttavia se questo non interessa e si preferisce optare per l’erudizione specialistica chi non crede in Dio, ma vuol essere un erudito sulle cose ultime, si può consolare con la professione di ontologo (2). L’ontologo può tenere agilmente testa al mariologo e talvolta, ma solo in particolari contesti, anche all’idraulico. (1) indicazioni provocatorie di Uppaluri Gopala Krishnamurti, filosofo e conferenziere indiano riguardo il copyright del suo pensiero:“Ognuno è libero di diffondere, interpretare, deformare ciò che dico e anche attribuirsene la paternità senza il mio consenso”.(2) Ontologo è il filosofo specializzato nello studio della struttura dell’essere.
Riti collettivi
Cinquecento persone nello stesso luogo, nessun pregiudizio di sesso, razza e opinione. Lì insieme, ognuno per quello che è in intima e collettiva armonia, indifferenti ai ruoli sociali, emancipati da personali opinioni, reciprocamente noncuranti del sapere e del reddito personale.Un rito collettivo autentico, dove si sperimenta fisicamente di appartenere a un popolo, all’umanità tutta e forse a qualcosa di più grande ancora. Dove ciò che conta è la propria umanità, così insieme ci si espande in silenzio, si va oltre sé stessi senza perdersi e la verità è lì tangibile, proprio perché non la si nomina e possiede. Non era un concerto rock e neppure un comizio a Mirabello, ma l’ultimo saluto ad un amico caro. Ma possibile che oggi per trovare un minimo di qualità del vivere insieme bisogna andare ad un funerale?
125 Special
Sulla provinciale che porta al paese mi imbatto in una rarità, è una Fiat “125 Special” davvero ben tenuta, nonostante sia fuori produzione da alcuni decenni.Va a quaranta all’ora, ma non posso superarla per una serie di curve. Considero: “Sarà di un amatore, appassionato d’auto d’epoca”. Finalmente lo sorpasso e vedo, aggrappato all’enorme volante, un ottantenne; occhiali spessi modello anni ‘70, camicia bianca, panciotto e cappello neri.Non è un appassionato di cimeli ma il primo ed unico proprietario della “125” acquistata a cambiali nel 1971 e finita di pagare nel 1973. Guida rigido, un po’ in mezzo alla strada, mentre guarda il panorama. Dall’interno dall’abitacolo rimane indifferente alle auto che lo superano, per lui il traffico è rimasto agli anni ’70; mentre la vita andava avanti lui si è mummificato, pietrificato, “cosificato” nel suo cimelio. Il mondo intorno a lui mutava radicalmente, ma lui da dentro alla sua “125 Special” non se ne accorgeva. Nell’abitacolo sono ancora vivi, insieme a lui, Berlinguer e Almirante; se gira la manovella e tira giù il finestrino puoi sentirne l’odore. Una fotografia in bianco e nero ma in tre dimensioni e che si muove pure, stimola in chi la osserva da fuori un certo “effetto zoo”, ma lui non lo sa, lui ignora il punto di vista esterno, lui è lì fermo dentro il suo perimetro spazio-temporale, lui non conosce cambiamento nel suo circoscritto e immodificabile continuo infinito presente.