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“ Caro Augusto in effetti abbiamo avuto percorsi differenti. Ricordo che don Giussani non curante della teologia e neppure della filosofia poggiava tutta la sua pedagogia «non su una sintesi di idee ma su una certezza di vita»: sull’ “avvenimento” della compagnia ecclesiale, nel caso di specie Comunione e Liberazione, gruppo di uomini segno sacramentale di Dio stesso. Non a caso, indifferenti alla teologia, studiavamo storia della Chiesa. Quel partire dall’uomo e dalla storia (dalla ecclesiologia), invece che da Dio, era - per me ragazzo - affascinante. Tutto sommato Dio, seppur concettualmente vero e perfetto, non lo vedevo a differenza della “compagnia sacramentale” che vedevo e toccavo. Avvertivo, in quel mio approccio esistenziale, Dio sinistramente fisso nella sua perfezione nebulosa e preferivo il movimento di una umana tangibile compagnia segno del divino.
A pensarci oggi un approccio meno esistenzialistico e più di pensiero con approfondimento teologico - invece di glissarci sopra, alla Giussani - dei concili di Nicea e seguenti e non solo, avrebbe forse aiutato a circoscrivere velleità giovanilistiche e fascini connessi per andare al punto della questione: una dottrina che afferma un Cristo che al posto dell’Io ha Dio nell'apparirmi inconciliabile coi Vangeli (almeno quelli li approfondivo quotidianamente) avrebbe stimolato, per sillogistico rimando, precise perplessità sulla “compagnia sacramentale” stessa. Ci sono arrivato per altre tortuose e faticose vie.
la tematica meriterebbe approfondimento a iniziare dagli ambienti cattolici: quanti conoscono con precisione la cristologia del Magistero? A quali conseguenze porterebbe una conoscenza precisa? Sono piuttosto convinto che per soggetti pensanti condurrebbe, non di rado, alla miscredenza (non di Cristo ma della dottrina della Chiesa).
Non così pensava Giovanni Paolo II nell’Udienza Generale, 13 Aprile 1988 dove affermava chirurgico - contestando catechesi che "sfumano molte asserzioni dogmatiche" - l’importanza delle definizioni cristologiche dei Concili nella Chiesa d’oggi. Il richiamo preoccupato del papa- che riporto a seguire - dimostra quanto la posizione del Magistero non sia chiara sia in ambienti cattolici che fuori:
«1. Riassumendo la dottrina cristologica dei Concili ecumenici e dei Padri, nelle ultime catechesi abbiamo potuto renderci conto dello sforzo compiuto dalla mente umana per penetrare nel mistero dell'uomo-Dio, e leggervi la verità della natura umana e della natura divina, della loro dualità e della loro unione nella persona del Verbo, delle proprietà e facoltà della natura umana e della loro perfetta armonizzazione e subordinazione alla egemonia dell'io divino. La traduzione di quella lettura approfondita è avvenuta nei Concili con concetti e termini assunti dal linguaggio corrente, che era la naturale espressione del modo comune di conoscere e di ragionare, anteriore alla concettualizzazione operata da qualsiasi scuola filosofica o teologica. La ricerca, la riflessione e il tentativo di perfezionare la forma espressiva non mancarono nei Padri e non sarebbero mancate nei successivi secoli della Chiesa, nei quali i concetti e i termini impiegati nella cristologia - specialmente quello di «persona» - avrebbero avuto approfondimenti e precisazioni di valore incalcolabile anche per il progresso del pensiero umano. Ma il loro significato nell'applicazione alla verità rivelata da esprimere non era legato o condizionato da autori o scuole particolari: era quello che si poteva cogliere nell'ordinario linguaggio dei dotti e anche dei non dotti di ogni tempo, come si può rilevare dall'analisi delle definizioni in essi pronunciate.
2. E comprensibile che nei tempi più recenti, volendo tradurre i dati rivelati in un linguaggio rispondente a nuove concezioni filosofiche o scientifiche, alcuni abbiano provato un senso di difficoltà a impiegare e ad accettare quell'antica terminologia, e specialmente la distinzione tra natura e persona che è fondamentale nella tradizionale cristologia come pure nella teologia della Trinità. Particolarmente chi si voglia ispirare alle posizioni delle varie scuole moderne, che insistono su una filosofia del linguaggio e su un'ermeneutica dipendenti dai presupposti del relativismo, soggettivismo, esistenzialismo, strutturalismo ecc., è portato a svalutare o addirittura a rigettare gli antichi concetti e termini, come affetti da scolasticismo, da formalismo, staticismo, astoricità ecc., così da essere inadatti ad esprimere e comunicare oggi il mistero del Cristo vivente.
3. Ma che cosa è poi avvenuto? Prima di tutto che alcuni sono diventati prigionieri di una nuova forma di scolasticismo, indotto da nozioni e terminologie legate alle nuove correnti del pensiero filosofico e scientifico, senza preoccuparsi di un vero confronto con la forma espressiva del senso comune e, si può dire, dell'intelligenza universale, che permane anche oggi indispensabile per comunicare gli uni con gli altri nel pensiero e nella vita. In secondo luogo, vi è stato un passaggio, com'era prevedibile, dalla crisi aperta sulla questione del linguaggio, alla relativizzazione del dogma niceno e calcedoniano, considerato come un semplice tentativo di lettura storica, datato, superato e non più proponibile all'intelligenza moderna. Questo passaggio è stato ed è molto rischioso e può condurre a esiti difficilmente conciliabili con i dati della rivelazione.
4. Nel nuovo linguaggio, infatti, si è arrivati a parlare dell'esistenza di una «persona umana» in Gesù Cristo, in base alla concezione fenomenologica della personalità, data da un insieme di momenti espressivi della coscienza e della libertà, senza sufficiente considerazione per il soggetto ontologico che ne è all'origine. Oppure si è ridotta la personalità divina all'autocoscienza che Gesù ha del «divino» che è in lui, senza intendere l'incarnazione come l'assunzione della natura umana da parte di un io divino trascendente e preesistente. Queste concezioni, che si riflettono anche sul dogma mariano e in modo particolare sulla maternità divina di Maria, così legata nei Concili al dogma cristologico, includono quasi sempre la negazione della distinzione tra natura e persona, che invece i Concili avevano preso dal linguaggio comune ed elaborato teologicamente come chiave di interpretazione del mistero di Cristo.
5. Questi fatti, qui ovviamente appena accennati, ci fanno capire quanto sia delicato il problema del nuovo linguaggio sia per la teologia sia per la catechesi, soprattutto quando, partendo dal rifiuto pregiudiziale di categorie antiche (per esempio, di quelle presentate come «elleniche»), si finisce per subire una tale sudditanza a nuove categorie - o a nuove parole - da manipolare, in nome di esse, anche la sostanza della verità rivelata.
Ciò non significa che non si possa e non si debba continuare a investigare il mistero del Verbo incarnato, e a «cercare modi più adatti di comunicare la dottrina cristiana», secondo le norme e lo spirito del Concilio Vaticano II, che ha ben ribadito, con Giovanni XXIII, che «altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo» .
La mentalità dell'uomo moderno, formata secondo i criteri e i metodi della conoscenza scientifica, dev'essere accostata tenendo conto delle sue tendenze alla ricerca nei vari campi del sapere, ma anche della sua più profonda aspirazione a un «di là» che supera qualitativamente tutti i confini dello sperimentabile e del calcolabile, come pure delle sue frequenti manifestazioni del bisogno di una sapienza ben più appagante e stimolante della scienza; in tal modo questa mentalità odierna risulta tutt'altro che impenetrabile al discorso sulle «ragioni supreme» della vita e sul loro fondamento in Dio. Di qui la possibilità anche di un discorso fondato e leale sul Cristo dei Vangeli e della storia, formulato nella consapevolezza del mistero, e quindi quasi balbettando, ma non senza la chiarezza di concetti elaborati con l'aiuto dello Spirito dai Concili e dai Padri e a noi tramandati dalla Chiesa.
6. A questo «deposito» rivelato e trasmesso dovrà essere fedele la catechesi cristologica, la quale, studiando e presentando la figura, la parola, l'opera del Cristo dei Vangeli, potrà benissimo far rilevare proprio in questo contenuto di verità e di vita l'affermazione della preesistenza eterna del Verbo, il mistero della sua «kenosi» (cf. Fil 2,7), la sua predestinazione ed esaltazione che è il fine vero di tutta l'economia della salvezza e che congloba con e nel Cristo uomo-Dio tutta l'umanità e in certo modo tutto il creato.
Tale catechesi dovrà presentare l'integrale verità del Cristo come Figlio e Verbo di Dio nelle altezze della Trinità (altro fondamentale dogma cristiano), che si incarna per la nostra salvezza ed attua così la massima unione pensabile e possibile tra la creatura e il Creatore, nell'essere umano e in tutto l'universo.
Essa non potrà inoltre trascurare la verità del Cristo che ha una sua realtà ontologica di umanità appartenente alla Persona divina, ma anche un'intima coscienza della sua divinità, dell'unità tra la sua umanità e la sua divinità e della missione salvifica che, come uomo, gli è assegnata.
Apparirà così la verità per cui in Gesù di Nazaret, nella sua esperienza e conoscenza interiore, si ha la più alta realizzazione della «personalità» anche nel suo valore di «sensus sui», di autocoscienza come fondamento e centro vitale di tutta l'attività interiore ed esteriore, ma attuata nella sfera infinitamente superiore della persona divina del Figlio.
Apparirà altresì la verità del Cristo che appartiene alla storia come un personaggio e un fatto particolare («factum ex muliere, natum sub lege») (Gal 4,4), ma che concretizza in sé valore universale dell'umanità pensata e creata nell'«eterno consiglio» di Dio; la verità del Cristo come realizzazione totale dell'eterno progetto che si traduce nell'«alleanza» e nel «regno» - di Dio e dell'uomo - che conosciamo dalla profezia e dalla storia biblica; la verità del Cristo eterno Logos, luce e ragione di tutte le cose (cf. Gv 1,4.9ss), che si incarna e si fa presente in mezzo alle cose, nel cuore della storia, per essere - secondo il disegno del Dio-Padre - il capo ontologico dell'universo, il redentore e salvatore di tutti gli uomini, il restauratore che ricapitola tutte le cose del cielo e della terra (cf. Ef 1,10).
7. Ben lungi dalle tentazioni di ogni forma di monismo materialistico o panlogico, una nuova riflessione su questo mistero del Dio che assume l'umanità per integrarla, salvarla e glorificarla nella conclusiva comunione della sua gloria, non perde niente del suo fascino e lascia assaporare la sua profonda verità e bellezza, se, sviluppata e spiegata nell'ambito della cristologia dei Concili e della Chiesa, viene portata anche a nuove espressioni teologiche, filosofiche e artistiche , nelle quali lo spirito umano possa acquisire sempre meglio ciò che emerge dall'abisso infinito della rivelazione divina.» ”