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Caro Bruno,
consentimi anzitutto l'uso del pronome confidenziale che utilizzo, pur non conoscendoti di persona. Tuttavia, mi sembra più congegnale dato i nostri comuni trascorsi in CL e soprattutto la scelta comune di lasciarceli alle spalle. Inoltre, leggendo con gradito stupore la tua testimonianza pubblicata nel volume "la Lobby di Dio", credo di aver individuato, attraverso le patologie, le professioni descritte, diversi amici che forse avevamo in comune.Premetto che condivido praticamente tutto di quello che hai descritto della tua esperienza e puoi immaginare la facile comprensione e simpatia umana scaturita dalla lettura del tuo lungo racconto. Credo e spero che a tua volta stupito nel leggere (se la cosa ti fosse gradita)anche una mia riflessione che inviai, al momento del mio definitivo commiato dal movimento, ai "capi", alla redazione di Tracce, ad alcuni amici della Brianza e di Milano ma alla quale nessuno rispose. Dopo un'appartenenza nella fedeltà per circa 30 anni francamente non me l'aspettavo. Ma questo sdegnoso e assordante silenzio è stato per me l'ulteriore conferma della bontà del passo fatto. Credevo di essere stato l'unico ad abbandonare dando ragione pubblica della scelta effettuata, ma ho scoperto con piacere che qualcun altro mi aveva non so se preceduto o seguito (confronterò le date)con analoga determinazione. Confermo: ci vogliono le palle per farlo, ma sono proprio contento di averlo fatto e di scoprire che perfino un ex "memore" ha fatto la stessa cosa. Ti allego, pertanto, la riflessione che scrissi in forma di lettera aperta a Giancarlo Cesana in risposta ad una sua testimonianza che analogamente ti allego per facilitare la lettura e la comprensione del testo.
Mi piacerebbe conoscerti personalmente date le sintonie che ho rinvenuto leggendo le tue riflessioni e spero di aver presto l'occasione di farlo.


Ciao
Giorgio




COMUNIONE NON E’ LIBERAZIONE
“La Verità vi farà liberi e sarete liberi davvero”


LETTERA APERTA A GIANCARLO CESANA E AGLI AMICI DI COMUNIONE E LIBERAZIONE







“La verità è che non sappiamo niente, o meglio:
sappiamo di non sapere, perché sappiamo di non essere niente”

Caro Giancarlo,
scrivo a te, e con te a tutti gli amici delle Comunità del Movimento incontrati in questi anni, per spiegare il mio attuale punto di vista.
Per ben due volte, negli ultimi giorni, mi sono imbattuto in questa tua affermazione della frase in apertura .
Spero di averla riassunta bene.
Ho letto una nota del 10 novembre 2002 inviatami da un’amica che riassume il tuo contributo ad un incontro della fraternità con Vittadini: “io sono niente” e ti ho sentito ripeterla in una serata, tra l’indifferenza distratta degli ospiti alla trasmissione televisiva, Excalibur, dove hai aggiunto: “so solo di non sapere”.
Devo confessarti che dopo diversi anni di mancata frequentazione l’approccio proposto mi ha incuriosito, al punto da indurmi a scriverti questa riflessione sull’argomento.
Devo premetterti che da qualche anno ho deciso di allontanarmi dal movimento, ma mi sono poi trovato nella condizione di chi pretende di non appartenere più alla sua famiglia.
Tuttavia, stando in metafora, sono uscito di casa. Forse, in ultimo, per cercarne un’altra, ma in prima istanza perché quella dove sono cresciuto non mi piaceva più.
D’altro canto, Gibran ne ”Il Profeta” dice, a proposito dei genitori, che sono come l’arco; e i figli, come le frecce scoccate dall’arco e che l’Arciere ama la stabilità dell’arco così come la velocità della freccia.
Ma vengo subito al punto di partenza per tornare più avanti sull’argomento che lascio al momento sospeso.
“Io sono niente” è’ un’affermazione provocatoria perché parte da un dato di realtà: moriremo, o meglio, iniziamo a morire nello stesso momento in cui nasciamo. Certo, potremmo essere solo effimera “apparenza” che improvvisamente scomparirà e di lei “non resterà nulla e questa è “la premonizione del niente che noi siamo” del niente da dove veniamo e del niente al quale andiamo.


Ma il cielo quel giorno era azzurro
Talmente bello da indurti a pensare che le “cose si sarebbero aggiustate” ma “non si è aggiustato assolutamente niente”. Questa è l’affermazione più interessante perché, pur nell’immenso dolore che posso solo immaginare, è carica della forza di una verità che non proviene dall’astratta metafisica ma dalla densa realtà.
Ma la bellezza di quel cielo blu te la sei ugualmente ricordata, quella “promessa” avvertita “per una bellezza vista” .
La promessa che spalanca al “Mistero”.
Dici che di fronte all’alternativa tra il niente e la promessa “l’unica ipotesi ragionevole” è che la stessa promessa “attrae irresistibilmente la nostra vita”. E quindi la promessa è il senso accettabile dell’apparente assurdo.
E’ la scommessa di Pascal per cui vale la pena mettere in gioco la vita, rischiare tutto per la vita eterna.
Anche qui sono con te e aggiungo di più: l’esperienza di quell’assurda memoria (considerata la drammaticità del momento) possiede la stessa forza della verità del reale. E’ accaduto e quindi è vero.
E sono ancora con te quando affermi che questo è il primo livello dove “esistenzialmente si pone il problema di Dio”. E’ molto logico: chi ci ha messo dentro questo desiderio è Dio, il Mistero.
Ma qui inizia la divergenza e, grazie a Dio, il cammino diverso che la “freccia” ha compiuto.
Mi spiego: Mosè domanda a Dio, al Mistero a nome di tutti gli uomini, chi Egli fosse, qual’era il suo nome, domanda fondativa di tutte le religioni e si sentì rispondere con una frase sconcertante : “Io sono Colui che è” che, se da un lato è una tautologia, come dire: “io sono io”, dall’altro è anche l’archetipo fondativo del linguaggio umano fatto di soggetto (Io), verbo (sono), oggetto (colui che è) non casualmente trinitario. Da quel momento il popolo eletto ricevette la legge del Padre a cui si sottomise e continua ad essere sottomesso: l’Epoca della Legge o del Padre.
I cristiani, con San Paolo, dissero di essere stati liberati dalla schiavitù della legge, dall’Amore di Cristo. E risposero e rispondono, come fai tu alla domanda, di Filippo: “Maestro mostraci il Padre” con le stesse parole di Gesù: “Chi vede me vede il Padre”.
Quindi, tu dici, Il Dio “per essere credibile”, incontrabile nella realtà fisica aggiungo io, si è fatto Uomo, si è fatto uno di noi, attraverso l’incarnazione resa possibile dal si di “una ragazza di 14 anni”, “una di noi” che, per dirla con Dante nella preghiera di S Bernardo: “l'umana natura nobili(tò) sì, che 'l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura”.
Fattura, che amava dirsi “figlio dell’uomo”. Che ci ha liberati, con la dimensione dell’amore, dalla schiavitù della Legge, e ci lasciato eredi della promessa di liberarci dalla morte che ha sperimentato e vinto. Coeredi, quindi del Padre: eterni come Lui. Come Dio! La promessa consiste quindi nella possibilità di essere come Dio di essere Dio, quantomeno l’ortodossia credo si limiti ad immaginarci (per prudenza e in pendenza del peccato originale della superbia), parte della Sua Dimensione Divina. Il cristianesimo, la nostra esperienza, potremmo quindi definirla come l’Epoca del Figlio o dell’Amore dove la carne deve consumarsi fino in fondo sul modello paradigmatico del Nostro Salvatore e fino alla liberazione finale attraverso il ciclo della Morte-Resurrezione.
Ma noi, nel mondo del reale contingente, possiamo sperimentare, drammaticamente solo la morte. Ed ecco allora venirci in soccorso la Fede, cioè la fiducia verso il mantenimento della promessa, la fedeltà nell’attesa del suo ritorno. Quindi, l’epoca del Figlio, dell’Amore è anche l’Epoca della Fede nella quale tuttora viviamo.
Ora, la tradizione vorrebbe, che la salvezza sia in virtù della fede, dono della grazia come affermavano i giansenisti. Qualcun altro diceva e dice ancora (gesuiti) in virtù delle opere. Con la C.d.O. parrebbe che anche voi propendereste per quest’ultima accezione o forse, ancor meglio, per un equilibrato mix.
Ma la fede, sappiamo, è appunto un dono e sinceramente credo che tutti facciamo fatica a capire perché mai debba essere fatto solo ad alcuni (molti sono i chiamati ma pochi gli eletti) soprattutto per noi cattolici che sull’idea dell’universalismo, dell’essere tutti figli dell’Unico Padre, abbiamo costruito, conquistando Roma, il mondo moderno.
E questo è il problema che ancora oggi divide credenti e non credenti (ma che sarebbe meglio definirlo, con il Cardinale Martini, “pensanti e non pensanti”), che divide i laici modernisti dai fedeli tradizionalisti. Ieri sera alla trasmissione dove hai partecipato era evidente.
Ma noi sappiamo, in virtù dell’amore di Cristo e noi italiani in particolare per S. Francesco nostro patrono, che quelli che troppo spesso definiamo gli “altri” nel momento in cui diciamo “noi”, sono nostri fratelli che dobbiamo amare per l’unico comandamento che Cristo stesso ci ha lasciato e che riassume tutta l’antica legge “ama il prossimo tuo come te stesso”.
A questo punto mi diresti, immagino, che il modo per amarli è nella verità cioè offrendogli la possibilità di incontrare la Verità: e questa è la missione affidataci.
A questo riguardo 2000 anni fa, racconta Giovanni nel suo Vangelo, il Governatore della Giudea Ponzio Pilato, (a nome di tutti i laici) domandò a Gesù: “..Dunque sei tu Re?” si sentì rispondere ;”Io sono nato per questo e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità…”. Poi, insistendo, di nuovo chiese “che cos’è la verità?”. Ma non ebbe risposta o non l’attese perché sembra avesse fretta di liberarLo. Tommaso la ricevette poco tempo prima e subito dopo la Sua promessa di un posto nella casa del Padre quando, (a nome degli scettici) gli domandò: “… non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?. Quella risposta ancor oggi rappresenta la più grande sfida per l’umanità, difficile da sostenere per noi del mondo “reale” e per chi non possiede il dono della fede: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”.

Ancora una volta la promessa.
Poco prima della fine , vide ancora dubbiosi i discepoli e tentò di confermarli: ”Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; Il Padre che dimora in me fa le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me. Almeno credete a causa delle opere stesse”. Sembrava già intuire il dramma dell’abbandono, della sfiducia (non fede) che sicuramente andava dipingendosi sul volto dei suoi più cari amici a causa della predizione del suo imminente ritorno al Padre e che già, e come al solito, non capivano niente, non sapevano niente, se non di essere niente.
Allora per consolarli fece un’altra promessa dicendo: ”molte cose ho da dirvi ma non le potete portare ora. Quando verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà in tutta la verità.” Il Paraclito (il Consolatore).
Dunque, aveva compreso il dramma dell’assenza che solo la conoscenza della Verità poteva lenire.
Dramma antico e al contempo moderno, di tutta la modernità.
Aveva, dunque capito, che oltre alla fede, dono per pochi, e di difficile mantenimento, (l’hai detto tu ieri sera, non affascina più, e penso che forse non affascini più perché non ha ancora fatto i conti con la modernità cioè con l’epoca della conoscenza) i suoi amici, tutti noi, tutti gli uomini, avevano bisogno di capire, di sapere, di conoscere per imparare a vivere nella Verità.
E’ ancora oggi il punto: ci si può salvare anche in virtù della conoscenza, oltre che della fede e delle opere? La gnosi, considerata la madre di tutte le eresie perché avrebbe annullato dalla storia il Sacrificio di Cristo, o meglio, nella preoccupazione dell’epoca, avrebbe eliminato dalla storia la Chiesa, credo, che già molto tempo fa, la pensasse più o meno così.
Ma forse aveva solo troppo anticipato quello che sta accadendo oggi sottovalutando la funzione storica della Chiesa “mater et magistra” che doveva per 2000 anni e deve ancor oggi educare e preparare gli uomini per la nuova epoca, quella appunto della conoscenza.
Mi sembra di ricordare anche che nel Vangelo di Luca si dice: “Ma, il Figlio dell’Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Non trovi sia una domanda sconcertante sulla quale sarebbe utile svolgere qualche ulteriore riflessione che non la semplice lettura dello sprono a non mollare? D’altro canto, potrebbe affermarsi che la fede, virtù teologale, assieme alla speranza sembrerebbe destinata a cessare, visto che S. Paolo, nel famoso inno, sostiene che solo “la carità non avrà mai fine”.
La fine della fede non potrebbe essere l’esito di un processo che porta l’uomo a comprendere non più con la fede (per similitudini) ma, apertamente, (per conoscenza)?.
Dopo 2000 anni non verrebbe da pensare ad una precisa responsabilità al riguardo?.
Non dovrebbero essere trascorsi invano; Teilhard de Chardin in fondo diceva, in termini evoluzionistici, che noi siamo oggi il frutto di ciò che è stato seminato ieri. Che l’oggi è figlio di ieri e che il domani è figlio dell’oggi e, testimoniando la sua fede, che: “l’avvenire è più bello di tutti i passati”. Come dargli torto se pensiamo ai nostri figli e al ruolo dell’educazione, cioè della fede e della cultura, cioè della conoscenza. I figli dovrebbero essere, migliori dei padri e in questa direzione occorre lavorare.
L’epoca della conoscenza, dunque, quella dello Spirito, da molti attesa quanto invocata e che forse inizierà in virtù del principio Morte-Resurrezione dall’esaurirsi del compito della Chiesa che pare una tendenza storica inesorabile. Ma, attenzione, intendo solo del compito!. Tu stesso sai, che tra pochi anni, passata l’attuale generazione che nella fede è stata educata, le Chiese saranno probabilmente sempre più vuote e ridotte a simboli di una religione morta al pari di quelle antiche che la sapienza moderna studia quale simulacri di esclusivo interesse archeologico dell’evoluzione antropologica. Già adesso è così. Ho visto a New York, in Central Park, una Chiesa Protestante, prestata ai nuovi fedeli dell’oriente Buddisti o Induisti non ricordo. Era frequentatissima e con code per i turni d’ingresso ordinate e pazientemente composte dai “modernissimi americani”. Era impressionante vedere celebrati, tra cuscini, tappeti, petali di rosa, e aromi orientali, gli strani e arcaici riti sotto le austere volte neogotiche. Quella cattolica, la più organizzata, sarà probabilmente l’ultima ad essere riutilizzata, magari dagli islamici.
Viviamo, ci dicono anche gli economisti e i sociologi, nella “knowledge society” la società della conoscenza, e non a torto se pensiamo all’accelerazione che la trasmissione del sapere ha subito per effetto della tecnologia e della globalizzazione.
Dopo la civiltà dell’amore, dunque, quella della conoscenza. Questa è la modernità, questo è l’oggi, questa è la realtà che ci spiazza e che ci mostra agli altri come “simulacri”.
Questo è dunque il motivo ultimo del mio abbandono, e non è stato per inseguire “facili mode” ma per assumermi, definitivamente innamorato di Cristo, la responsabilità di una promessa che arriva da 2000 anni di storia. Da adulto, direste voi, per assumermi la dimensione personale della responsabilità verso la consegna affidataci dalla Legge prima, e dall’Amore poi, di percorrere, in compagnia degli uomini, di noi, il difficile cammino verso la conoscenza: lo Spirito di Verità.
Ci vuole un imprevisto diceva tempo fa Don Giussani . Per me è accaduto. Ho avuto la fortuna di incontrare una persona che ha scritto: “se Dio di sé ha detto di essere COLUI CHE È, allora anch’io, (che sono l’erede della promessa) non sono altro che me. Come Dio. La promessa, IO SONO COLUI CHE È, cioè: “IO SONO ME”.

Allora non è vero che non sono niente:sono me
L’identità, dell’io. Cioè il contenuto reale, non apparente, ma definitivamente compiuto dell’IO di cui, gli insoddisfatti “bisogni originari”, tutti riconducibili a quello di Verità, non rappresentano altro che il suo autentico struggimento, grido disperato alla speranza della promessa.
Ma è pur vero, come dici in chiusura: “non sappiamo niente, perché siamo veramente niente” . E’ anche vero (lo scrivo sorridendo) che per essere uno che non sa niente ne hai dette tante di cose in questi anni. Come il povero Socrate che lo disse qualche centinaia d’anni prima di Cristo: so di non sapere e chi presume di sapere e nemmeno questo sa, ancora meno di me sa: il colmo della presunzione per gli ostracisti del tempo che gliela fecero pagare con il processo per empietà.
Ma se questo - noi non sappiamo niente, io sono niente- come per Socrate non è che “il punto di partenza” del reale apparente/contingente, quello finale della realtà trascendente, è che non è vero che non sono niente: sono me. E questo è veramente liberante.


Il compimento della promessa
Spiego perché: Perché introduce ed esaurisce la connessione dell’esistere apparente (Io sono) all’esistere nel reale trascendente: IO sono ME - (Colui che E’). Come Dio: il compimento della promessa!.
MI sovviene l’avvincente narrazione proposta al riguardo dal film Matrix che, se opportunamente depurata dall’eccessiva concessione fatta alle esigenze della spettacolarità, ben rappresenta questo punto di vista.
Mi rifaccio, però anche a Elèmire Zolla appassionato indagatore del mistero di cui ho recentemente letto una recensione del suo ultimo libro “Discesa all’Ade e Resurrezione”. Egli descrive lo sgomento della nostra coscienza soggettiva che si spegne di fronte al procedere inesorabile dell’’io apparente verso la “sua catastrofe ”, che determina alla fine “un vortice” nel quale “noi si cessa di essere rappresentati dal soggetto che sta di fronte alla natura” dove è travolto “tutto il nostro mondo abituale”, e che “strappa le forme alle quali siamo legati….”. Ebbene, sostiene che quella catastrofe dell’io è necessaria per “essere sollevati al punto in cui la percezione del dolore cessa oppure è travolta” – trasfigurata – dall’afflusso di intensità sensibile, dalla piena gioia”. Il nulla finale o l’Io eterno. O la possibilità Buddista: “non c’importa niente della sofferenza” anche finale, perché “quando ci colpisce non esistiamo più” , o la Morte – Resurrezione, “la piena gioia” che viene dall’essere luce quando l’Io apparente svanisce. Il compimento dell’antica promessa. Antica e attuale. Antica anche più di Gesù, nostra attuale pietra di paragone, la cui sequenza esperienziale - morte – discesa agli inferi – resurrezione – si ritrova anche in metafisiche anteriori.
Gesù sulla croce “è una larva che si annienta in quanto tale” ma “permette al corpo vero, di luce, la continuazione della vita senza tempo né spazio”; il corpo luminoso o “glorioso” che per S. Paolo “si da precisamente nella misura in cui l’Io si estingue”. In buona sostanza “fuori dalla prigione della persona” il corpo può finalmente sciogliersi nel Divino. Ma se per i Buddisti “l’insussistenza della persona” rappresenta la prima rivelazione, la rinuncia alla centralità dell’Io per noi occidentali è sgomento. Vi è una certa e diffusa riluttanza per noi a considerarci “una semplice bugia destinata a essere sfatata dalla morte”. Ma, oltre alla fede (che spesso vacilla e che non tutti possiedono), ci viene in soccorso la conoscenza dei fenomeni fisici, della natura, le cui leggi costitutive sembrano racchiudere lo stesso mistero: la contrazione della massa fino all’esaurimento genera il fotone privo di massa, luce posta fuori dalla materia.
Ma, tu insisti, con l’approccio religioso; “la promessa della felicità, diventa possibile nella fede” diventa possibile “se ci si abbandona alla sequela di questa Presenza” , “del Fatto che è intervenuto nella storia” . E alla domanda della modernità: ma dov’è ora questa presenza si che possiamo seguirla? rispondi: “se uno guarda la vita con gli occhi della fede” capisce che “la promessa per la quale ci sentiamo fatti non è una promessa perduta”, perché sarebbe come guardarla “attraverso Cristo”. Il problema è, che a riprova di ciò, sembreresti solo affermare che “tutto quello che succede diventa diverso”. Anche di fronte ad una disgrazia la fede ti permette di affermare: “Io sono certo che il bene c’è” ; “Sono certo che questo è per un bene”. Quindi dici, “l’unico coraggio” che può battere “il cinismo con cui si guarda la vita normalmente”, cinismo che “cancella assolutamente questa speranza” , e che “si può avere per dire questo, è solo in Cristo”. Ma questo non risponde ancora al fondo della domanda, ripropone solo la speranza che tuttavia vorresti sorretta dalla possibilità di sperimentare “un’umanità vissuta in termini adeguati, cioè in termini corrispondenti a quello che vorremmo e come miracolo persistente, come amicizia” quale “ testimonianza ultima di questa presenza”.
Vien da sorridere sperando che sia solo la prima e non l’ultima!.
Ma come si fa, caro Giancarlo e cari amici, ad aver ancora l’illusione e la pretesa di far coincidere “la nostra amicizia” con la prova della Presenza?
Non ti sembra un po’ poco per essere “credibile” come dici tu?
Ma se uno pur nella “grazia dell’incontro” si accorge che non vi è affatto corrispondenza a quello che vorrebbe, in una parola corrispondenza alla Verità anzi, due, alla Bellezza, anzi tre, all’Amore, significa che la Presenza si è fatta Assenza?
L’assenza
E’ proprio questo il dramma per la modernità dei nostri contemporanei, di noi. L’assenza! La malattia del mondo che dilaga come patologia globale dell’umanità intera, malata della nostalgia della Presenza. I segni sono impressionanti.
Il punto è (lo dici sempre tu) che, anche noi, collaborando con la morte, contribuiamo al niente, “ci facciamo il culo a mandolino”, lo facciamo agli altri, e “rendiamo la vita invivibile a noi stessi e agli altri, cioè siamo peccatori”.
Come può allora pretendersi di far incontrare la Presenza in questo luogo che contribuisce al niente?, e la drammaticità della domanda è ancor più accentuata dalla sicumera e dalla protervia con le quali spesso vengono fornite le risposte.
Ma allora?
Credo che il problema irrisolto (ammesso e non concesso che per voi esista un problema) del Movimento e della Chiesa e che penso abbia indotto molti come me ad abbandonarlo, sia il rapporto con la libertà.
La libertà
Vale a dire il rapporto che ci lega alla realtà contingente/apparente dell’uomo fatta dalla consapevolezza acquisita di essere “creatura” ma anche creatura fatta libera. Libera anche di sbagliare. Ma che in virtù di questa libertà rende gli uomini agli occhi di Dio più interessanti degli stessi angeli. Pare, d’altro canto, che anche Gesù avesse una predilezione per le pecorelle smarrite. Dicevamo una volta che “Dio ha bisogno degli uomini” ! ma per far cosa? Forse per esistere nella nostra realtà? Ecco la libertà: possiamo, volendolo non farlo entrare o decidere di accoglierlo. Cioè la libertà di scegliere, l’opzione. Ma come si fa ad accoglierlo o non accoglierlo, anche dopo l’incarnazione del Figlio? Con la sequela, proponi, mendicando questo misterioso Fatto”. Ecco di nuovo il Mistero che in quanto tale chiede di essere conosciuto per “poterlo frequentare, per mangiarvi assieme, per parlagli assieme, per confrontarci con lui”. Ed ecco che per inspiegabile magia la libertà si trasforma (per voi) nella sua esatta ed opposta antinomia: l’obbedienza. Ciò è perfettamente comprensibile e quindi accettabile dagli uomini antichi, quelli dell’epoca della legge, un po’ meno dagli avi dell’epoca della fede e dell’amore e, per nulla (e questo è il dramma, quello della Chiesa) dai moderni e ancor più dai contemporanei. Già Dante ci ammoniva: “Fatti non foste per vivere come bruti ma per seguir virtude e conoscenza”. Abbiamo un compito quindi che la modernità si è assunta dall’invito del Sommo Poeta: oltre alla virtù (la legge e l’amore) dobbiamo seguire la conoscenza che sappiamo fondarsi sulla libera ricerca. Anche il povero Giordano Bruno l’aveva seguita e anche a lui fecero “il culo a mandolino”, anche lui finì processato per empietà e incenerito dall’intolleranza frutto della sicumera. Diceva a proposito della religione cioè della pretesa di stare davanti alla presenza del mistero:
“Che vi val, curiosi di studiare,
voler saper quel che fa la natura,
se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura
ma con man gionte e ‘n ginocchion vuol stare
aspettando da Dio la sua ventura”.
Sempre Teilhard De Chardin a proposito della scala cosmica del cristianesimo dice:” Per i nove decimi di coloro che lo guardano dall’esterno, il Dio cristiano appare come un grande proprietario che amministra i suoi poderi: Il mondo. Ora questa figura convenzionale, giustificata da troppe apparenze, non corrisponde per nulla al dogma, nemmeno all’atteggiamento evangelico. Vediamo perché. L’essenza del cristianesimo non è ne più ne meno che la credenza nell’unificazione del mondo in Dio mediante l’Incarnazione. Il resto rappresenta soltanto spiegazioni o rappresentazioni secondarie. Detto questo, fino a quando la società umana non aveva superato lo stadio familiare, -neolitico-, del suo sviluppo (cioè fino agli albori della fase scientifico-industriale moderna) è chiaro che, per esprimersi l’Incarnazione non poteva trovare che simboli di natura giuridica. Ma dalla scoperta contemporanea delle grandi unità e delle ampie energie cosmiche, un significato nuovo, più soddisfacente comincia a precisarsi per le parole antiche. Per essere Alfa e Omega, il Cristo deve, senza perdere la sua precisione umana, diventare coestensivo alle immensità fisiche della Durata e dello Spazio. Per regnare sulla Terra Egli deve superanimare il Mondo. Pertanto, in base all’intera logica del Cristianesimo, il Personale si espande (o meglio, si centra) sino a diventare Universale. Non è forse proprio questo il Dio che aspettiamo?”.
Non è allora la sete di sapere ben rappresentata dall’umiltà di chi sa di non saper niente? Quindi più che dispensare effimere certezze, per l’infondatezza delle quali, siamo poi costretti a chiedere scusa (peraltro e forse gli unici nella storia - come hai detto ad excalibur -) non dovremmo assumerci più decisamente questo compito?
Questa poca disponibilità ad appagare la sete di conoscenza, di ricerca, di scoperta, che pare andar di pari passo con quella della libertà, dimensione irresistibile della realtà umana, radice di tutte le ribellioni e che tanto ha contribuito all’evoluzione dell’umanità, è il problema irrisolto con la modernità. Per il Movimento l’approccio alla ricerca della conoscenza è molto strumentale: mi è sembrato spesso più interessato alle conferme. Troppo poco se pensiamo che il punto di partenza è che non sappiamo niente.
Essa non può essere soddisfatta in questo rapporto di scambio: segui, obbedisci, fidati e sarai liberato!.
Questo è ragionevolmente inaccettabile.
Non solo; Posso testimoniare dopo tanti anni di fiducia accordata e di sequela prestata che la “promessa non si è compiuta neppure come “albore” neppure come “il già e non ancora” e nemmeno come “il centuplo quaggiù” che tanto ti piaceva ricordare a conferma della teoria esperienziale. Ho provato sinceramente, ho sperimentato per molti anni. Ma la verità non è così. Purtroppo, o per fortuna, le cose non stanno così.

comunione non è liberazione!
A mio avviso, solo la Verità, infatti, ci farà liberi. E la verità è che nella comunione non vi è liberazione. Al massimo quando va bene, solo compassionevole ed effimera consolazione della dimensione disperata in cui viviamo. Apparenza, simulacro iconografico, che come un presepe ripropone l’antica suggestione religiosa che al di là delle leve emotive e sentimentali del “puro religioso” poco ha a che fare con la realtà (anche apparente), dalla quale dobbiamo uscire per entrare, da post religiosi,, nel “puro sacro”. Perché, così come “non possiamo non dirci Cristiani”, non possiamo non dirci post religiosi. Se è vero, infatti, che il cristianesimo non è una religione, ma la Verità rivelata significa che in quanto cristiani siamo post religiosi. Siamo cioè usciti dal sacro simbolico per andare, appunto, verso il puro sacro. Dunque, dall’esistere apparente al trascendere reale (puro sacro).
Ma prima di veder come, voglio ancora attardarmi dando le ragioni delle precedenti affermazioni così che possano eventualmente servire allo sviluppo di una riflessione e di un confronto costruttivo.
Tanto è vero che “la religione non affascina più” dicevi nella trasmissione televisiva. E fidati, neanche il movimento, nonostante gli apparenti successi. La crisi che attraversa nei suoi luoghi di origine, dove l’esperienza, il sacrificio della sua carne, si è consumato testimonia della sua fine quasi apocalittica, nel senso del catastrofismo disvelante di Zolla. Nelle frontiere della missione stanno semplicemente iniziando il percorso come ho potuto vedere nelle comunità del Nord America.

Mi sono chiesto il perché, e ti assicuro, lacerando con dolore la mia carne mi sono dato queste risposte:
? Perché non è vero che libera ma imprigiona.
? Perché non è vero che compie l’IO ma lo aliena con la teoria dell’altro da se e i “cloni giussaniani” che ha prodotto.
? Perché non è vero che fa sperimentare il centuplo quaggiù a tutti; forse solo a chi del suo “potere”ha fatto la sua fortuna.
? Perché “l’amicizia come testimonianza ultima della Presenza” non è che militanza dove il valore del commilitone o compagno o amico è proporzionale al contributo che offre alla causa.
? Perché la compagnia, come spesso la Chiesa, è solo vissuta come alibi e luogo di giustificazione e dispensazione di facili indulgenze che lasciano immutata l’esistenza.
? Perché non vi è sufficientemente praticato l’ascolto, la comprensione caritatevole e fraterna.
? Perché si giudica molto nonostante il monito di Gesù.
? Perché troppi si fanno chiamare maestri mentre uno solo è il maestro e noi siamo tutti fratelli.
? Perché vi sono troppi padri quando uno solo è il Padre e noi siamo tutti figli.
? Perché vi sono troppi responsabili (come un esercito) come se gli altri fossero degli irresponsabili.
? Perché vi è molto spazio per le certezze e poco per i dubbi.
? Perché non vi è ricerca, creazione, invenzione ma solo ripetizione.
? Perché non vi è sincero desiderio di incontro se non per proselitismo, di scoperta se non per confermare quanto già noto.
? Perché vi è molta ricerca del potere e poco servizio.
L’elenco sarebbe lungo e ognuno potrebbe arricchirlo con la sua esperienza di peccatore. Ma il punto non è che questo è il frutto del nostro peccato e che questo rappresenta “la tentazione ultima”. Semmai sarebbe la prima. Ma il punto è che tale concentrazione di errori e debolezze a fronte di una così sincera e grande generosità iniziale della compagnia che francamente non mi sembra più molto “orientata al destino”, è a mio parere il prodotto avariato di un metodo dal quale è guidata e che all’origine è sbagliato: appunto il rapporto con la libertà che non responsabilizza, ma aliena.
Infatti, tu dici che nonostante l’incontro con Cristo, “continuiamo a farci del male, a contribuire al niente”. Quasi come diceva una nostra bella canzone: ”…il mondo, tutto intero è rimasto tale quale…”, altro che “umanità nuova”!. C’e ancora “…bisogno di qualcuno che ci liberi dal male”. Ma allora il gioco sarebbe infinito e senza soluzione. Ho seguito (la legge) mi sono fidato (la fede) ma nulla è cambiato. Soprattutto per il mio desiderio di felicità e di liberazione dal male e dalla morte.
Francamente, mi è sembrato che qualcosa non andasse.
Ed è proprio questo il punto dal quale sono ripartito e dal quale, grazie “all’imprevisto”, ho ritrovato una ragionevole spiegazione del significato della promessa: “ Io sono colui che è, cioè: io sono me”.
Vale a dire il recupero della condizione di libertà vera dignità dell’essere proprio dell’uomo e non dell’avere (come ha detto recentemente il Papa al Parlamento Italiano).

Io sono me, apre alla dimensione creativa della libertà.
Vale a dire dell’auto creatività. Spalanca le porte allo Spirito di Verità che notoriamente soffia dove vuole. Che svela, che rivela, che chiede disponibilità e apertura al possibile e all’impossibile. Che non divide ma apre all’ascolto e unifica nella verità. Che ama nella verità. Che ordina e governa nella verità.Che tutto compie nella verità. Che dall’esistere ( Io sono) ci trasporta al trascendere (me) puro sacro.
Come tutti sappiamo il nostro Dio è Unico e Trinitario ma anche il creato lo è. Tutta la natura dalle stelle agli atomi, dai colori alla musica, dall’uomo alla parola tutto vive evolvendosi in una struttura triadica. La struttura di ogni IO è trinitaria. La struttura dell’EGO.

L’egostruttura
La trinità della dimensione ultima dell’uomo e della promessa a lui fatta: Al contempo Padre, Figlio e Spirito. L’alfa e l’omega! il mistero!
“La trinità infinita che sempre sgorga e sempre rifluisce nel quieto mare del suo stesso amore”.
Questa è l’immagine più sublime della bellezza e dell’ordine eterno. Farebbe persino felice il teologo evoluzionista Teilhard De Chardin che per poco sfiorò l’accusa di empietà quando, indagando sulla “cosmogenesi” sostenne che l’universo procede “dal molteplice all’uno”.
…“Sotto i nostri sguardi, dall’elettrone all’uomo, attraverso le proteine, i virus, i protozoi e i metazoi, una lunga catena di composti si forma e si dispiega, in cui la materia, raggiungendo progressivamente valori astronomici di complessità e di organizzazione, si centra pari passu in se stessa e contemporaneamente si anima. Perché non definire semplicemente la vita come la proprietà specifica della stoffa dell’universo evolutivamente portata sino alla regione dei grandi complessi? Perché non definire il tempo stesso proprio come l’ascesa dell’universo nella direzione delle alte latitudini in cui aumentano simultaneamente e correlativamente la complessità, la concentrazione, la centrazione e la coscienza?…Una cosmogenesi che ingloba e generalizza, alla dimensione dell’universo, sotto forma di Noogenesi, le leggi della nostra Ontogenesi individuale (EGOSTRUTTURE). Un mondo che nasce invece di un mondo che è: ecco ciò che suggerisce, ecco ciò che addirittura il fenomeno umano ci costringe ad ammettere, se veramente vogliamo riservare a tale fenomeno un posto in questa evoluzione in cui siamo stati obbligati a lasciarlo entrare. (….) Per adattarsi all’uomo, punto e freccia sperimentali dell’evoluzione, per contenere e propagare la Noogenesi nella quale si esprime sempre più chiaramente la marcia delle cose, una sola può essere la forma soddisfacente dello spazio-tempo. Coinvolti nella sua curvatura particolare, gli strati della materia (considerati in ogni singolo elemento che nel loro insieme) si concentrano e convergono per sintesi, nel pensiero.
E’ quindi un cono, sotto forma di un cono, che possiamo meglio rappresentarcelo”.
Sembra il vortice di cui parlava Zolla. E’ possibile allora riprendere il cammino nel vento dello Spirito.
Ciò mi riempie il cuore di gioia!
“Discendi Santo Spirito le nostre menti illumina, del ciel la grazia accordaci, onnipotente Spirito” Liberi dall’esito ma anche dal metodo!.Liberi di conoscere. Un lavoro per tutti e di tutti.
L’unico vero lavoro della vita: Conoscere la verità per renderci:
Liberi dalla libertà e schiavi della verità.



Questo vi dovevo per quanto da voi ricevuto e questo devo a quanto mi è, dall’imprevisto, stato gratuitamente donato.
Con immutato affetto
Giorgio Beretta
Milano, 20 novembre 2002


Cesana 10.11.2002
Mi sembra che l’osservazione di partenza e cioè che io sono niente, e questo è perfettamente ragionevole, sia una osservazione assolutamente esatta. Io sono niente, perché la vita non me la sono data io e morirò. Per cui di me non resterà nulla. Certo, le opere, ma non io, fenomenicamente io potrei essere un’apparenza, qualcosa che adesso c’è e che a un certo punto non ci sarà più. Io questa cosa l’ho capita proprio in quel momento in cui moriva mia moglie. Perché appunto, un incidente, pochi secondi …. E ti veniva da pensare che le cose si sarebbero aggiustate. Non si è aggiustato assolutamente niente. E tante volte nella vita non si aggiusta niente. E questo è la premonizione del niente che noi siamo. Proprio del niente. Ma questa è solo un’osservazione preliminare. D’altra parte proprio intanto che moriva mia moglie il cielo era azzurrissimo e il paesaggio era bellissimo. Una pro-messa. E così è la nostra vita, dove a fronte della percezione del niente c’è nello stesso tempo lo struggimento per una promessa avvertita, per una bellezza vista cui non si può rinunciare, per cui si capisce di essere parte. Dentro questa vita, che è destinata al niente, c’è dentro una promessa. E noi viviamo ansando verso questa promessa. Proprio come tensione continua verso questa promessa. E’ contro appunto la percezione del niente, tanto è vero che noi siamo così tesi a questa promessa che ha buon gioco chi giocando su questa promessa ci distrae. Giocando sulla bellezza, sulla possibilità della felicità, sulla possibilità del piacere e del godimento ci porta via alla consapevolezza ultima e dura che invece la vita è niente. Che io sono niente. Ma non solo io sono niente nel senso che sono destinato a morire, ma io sono niente anche perché collaboro con la morte. Perché non siamo niente, però, come dice Giorgio ci facciamo un culo a mandolino. Glielo facciamo anche agli altri il culo a mandolino. Ce lo facciamo a noi, glielo facciamo agli alti e rendiamo invivibile la vita a noi stessi e agli altri, cioè siamo peccatori. Non solo siamo niente, veniamo dal niente, siamo destinati al niente, ma collaboriamo anche con questo niente, ci mettiamo dentro anche il nostro contributo. E lo vediamo soprattutto con le persone che amiamo di più, a cui non diamo quello di cui hanno bisogno. Le trattiamo duramente con indifferenza con egoismo. D’altra parte insisto c’è questo cielo azzurro, cioè c’è, questa promessa, che attrae irresistibilmente la nostra vita. La prima alternativa si gioca qui: che cosa vale nella vita? Che cosa è importante nella vita? Il niente a cui sembriamo destinati o la promessa che ci attrae irresistibilmente? Se fosse la prima ipotesi, sarebbe da buttarsi giù dal balcone non a 18 anni, a 20 anni. ma molto prima, perché non c’è assolutamente nessuna speranza. L’unica ipotesi ragionevolmente possibile è la seconda. E cioè che se noi abbiamo questo desiderio, come dice don Giussani, qualcuno questo desiderio ce lo deve aver dato. E non ce lo ha dato per sotterraci, ce lo ha dato per compierlo. E’a questo livello che esistenzialmente si pone il problema di Dio. Cioè di questa misteriosità o dietro o dopo di noi c’è il niente, o dietro o durante o dopo noi c’è il Mistero. C’è il Mistero da cui noi veniamo e verso cui noi andiamo. E’ Colui che fa tutto. E se ha fatto tutto ha fatto anche noi, per cui se ci ha dato questo desiderio, se ci ha dato questo cielo azzurro non ce lo ha dato per negarcelo, ce lo ha dato per darcelo. Per poterlo finalmente vivere. Guardate che la vita è veramente drammatica. Ma anche così questo Mistero sem-brerebbe distante, cioè sembrerebbe qualcuno, qualcosa che in fondo con noi non centra. Mi rendo conto che noi ci facciamo il culo, ci sono gli altri; è tutto un arrabattarsi che poi alla fine …. Che questo è il problema centrale di Cristo: il problema di Cristo è che Lui ha detto: “A te t’hanno pestato? M’han pestato anche me”. Cioè Dio ha assunto la nostra condizione. Per cui moriamo noi è morto tutto. E l’unico modo per capire il modo con cui Lui centra con noi è Cristo. Perché senza Cristo Dio non centrerebbe mai con noi. Cioè non sarebbe un uomo. Dio dev’essere uno di noi, deve essere uno come noi. Deve condividere, cioè deve essere credibile. Dio per essere credibile deve condividere la nostra condizione, totalmente in tutti gli aspetti della nostra condizione umana. Incluso tutto, la povertà, il dolore, la sofferenza, l’abbandono, la fatica e tutto quello che noi viviamo tutti i giorni. Perché Cristo è un Dio che ci testimonia questo. E che ci testimonia questo vincendo. Per cui la promessa del cielo blu, la promessa della felicità, diventa possibile nella fede, cioè diventa possibile, se ci si abbandona alla sequela di questa Presenza cioè di questo Fatto che è intervenuto nella storia. Nella misura in cui si accetta l’Annuncio che la tradizione ci ha portato, cioè quella storia di uomini che hanno creduto, che lo hanno seguito, ha portato fino a noi, consegnandolo di mano in mano, e l’Annuncio è che Dio è venuto fra di noi, che tutto quello che viviamo l’ha vissuto Lui, e l’ha vissuto Lui per farci capire che la promenssa per la quale ci sentiamo fatti non è una promessa perduta, se uno guarda la vita con gli occhi della fede, cioè guardandola attraverso Cristo. Allora tutto quello che succede diventa diverso, e diventa diverso non perchè vengono messe a posto le cose, vengono sistemate le cose per benino secondo i nostri calcoli come vorremmo noi. Tanto è vero che è molto difficile che di fronte a una disgrazia, dire che “Sono certo che questo è per un bene”, come si fa a dirlo? E’ molto più semplice dire un’altra cosa: “Io sono certo che il bene c’è”, che questo come è successo a me è successo a Lui e che Lui questa debolezza l’ha vinta. Io sono certo che il bene c’è, e siccome sono certo che il bene c’è, spero che quello che desidero si compia. E mi metto al lavoro per cui quello che desidero si compia. E do la mia collaborazione perché quello che desidero si compia, ben sapendo che in fondo tutto ciò che è bene è dato. Perché insomma, o la vita è una parentesi tra il non esserci e il non esserci più o la vita è qualcosa che sta per sempre, ma con che coraggio posso dire che la mia vita, che quello che desidero che l’amore che ho per una donna, che l’amore che ho per i figli, che l’amicizia, che quello che sento, che quello che mi piace, come posso dire che è per sempre. Il cinismo con cui si guarda la vita normalmente cancella assolutamente questa speranza. L’unico coraggio che si può avere per dire questo è proprio solo in Cristo. Perché questo è il vero problema. Cioè in questa redenzione della miseria umana, di un Dio che ha assunto la miseria umana e l’ha vinta. Questo è quello che ci è stato detto e che ci è stato documentato come umanità vissuta; e un’umanità vissuta in termini adeguati, cioè in termini corrispondenti a quello che vorremmo e come miracolo persistente, come diceva Intiglietta, come amicizia, e in che cosa consiste la nostra amicizia se non in quella testimonianza ultima di questa presenza. In che cosa la nostra amicizia può essere definitiva se non nella testimonianza ultima di questa presenza di Dio nella nostra vita; di questo modo di Dio di intervenire nella nostra vita. Comunque il richiamo che fa don Giussani continuamente sulla Madonna è che la cosa più impressionante della Madonna non era Dio, la Madonna era una di noi. Una ragazza di 14/15 anni che è stata toccata da questo grande Mistero e ha detto sì, e da lì, non solo lei, ma la vita di tutto il mondo è cambiata. Cioè da 2000 anni la vita di tutto il mondo è cambiata in relazione al sì di una ragazza di 14 anni. Dio, il cuore di Dio per farsi uomo aveva bisogno del sì di una ragazza di 14 anni che collaborasse con lui per darGli un uomo che Lui era. Il Cristianesimo è l’Annuncio di questo, è l’Annuncio di questo Fatto iniziato 2000 anni fa e durato persistentemente fino a noi, come speranza alla nostra coscienza per cui capiamo che siamo zero, che il tutto se c’è, se esiste, è nel Mistero che fa ogni cosa, ma se noi lo seguiamo, mendichiamo questo misterioso Fatto, come ci si attacca a Lui, come Lo si frequenta, come gli si mangia insieme, come gli si parla, come ci si confronta … Noi non sappiamo niente, perché siamo veramente niente. La vera questione è che il punto di partenza della coscienza umana è che io sono niente.